lunedì 30 dicembre 2013

Mi dico scrivi

Mi dico scrivi, mentre piango e non riesco a fermarmi. Non so nulla, a parte che sei sulla stessa ambulanza in cui molte volte ho dormito e riso e giocato. So che forse, per te, è l'ultimo viaggio. 
Mi dico scrivi che lo so che è l'unico modo per esorcizzare il dolore. 
Mi dico scrivi,ma non prendo appunti, mi scrivo nella testa che magari qualcosa la ricorderò. 
Mi ricordo del cassetto bianco, in fondo a destra, che ci tenevi i lecca lecca, i twix, i fazzoletti, le patatine. Non li abbiamo mai mangiati ma continuavi a comprarli. 
Mi ricordo di quando, alla cassa del supermercato, quel vecchio ti fissava il seno e tu avevi quella maglietta bianca e al centro c'erano i brillantini a formare la parola "Onyx". 
Mi ricordo quando chiamavo a casa e rispondevi sempre tu, vedevi il numero di casa mia, e invece di "pronto" rispondevi con quel nomignolo che ci aveva dato tuo padre, poi mi passavi tua sorella scongiurandoci di non stare a telefono per delle ore. 
E quando ero a casa tua, praticamente sempre, ci chiudevano nella tua stanza, io e tua sorella, e leggevamo gli sms che mandavi al tuo fidanzato. Ci sembrava divertente, solo adesso so che è scorretto. 
Mi ricordo che quando ti hanno detto che eri malata, ho pensato che saresti guarita e che quando sei guarita e ti sei sposata io ero a Roma in un albergo senza 3g, fuori c'era caldo, attorno alla piscina i cani giocavano a rincorrersi. 
Le foto di te in abito bianco le ho viste tardi e avevi sempre lo stesso sorriso. 
Non sei mia sorella, ma sei la sorella di mia sorella. 
Un po' sei stata anche la mia famiglia. 
Siamo cresciute insieme come se fosse naturale. Sei la sorella, eri la sorella, della mia metà perfetta, della "mia persona". 
A me adesso mi verrebbe da bestemmiare un dio qualsiasi perché a trent'anni non si muore così, ma tu avevi fede e ci credevi in questa vita dopo la morte, al paradiso. 
E se questo posto esiste, allora, so già che sei con i nonni (quelli che non sono
 i miei ma era come se lo fossero). Già vedo la nonna mentre ti dice che sei troppo magra e ti prepara il solito zabaione. 

Ho smesso di scrivere mentre guidavo per venire da te. I ragazzi mi hanno detto che non ci sei più, ho gridato, ho battuto i piedi, ho aperto la finestra perché mi mancava il respiro. 
Tua sorella mi ha visto, ha detto che non devo piangere perché adesso stai bene, poi ha pianto anche lei.
C'eri tu, bella come sempre, con quell'espressione immobile.
C'era un sacco di altra gente. 
Mi sembra di piangere da giorni ma sono solo poche ore. 
Mi sembra di morire un po' con te.  
Sono svuotata e annientata.  

Mi hanno scavata dentro. 

venerdì 27 dicembre 2013

Fotoscrittrice, scrittricefotografa, scrittrice, fotografa


Hanno tutti una reflex, di cui sto imparando i nomi più per spirito di sopravvivenza che altro.
300D, 60D, MarkII e qualcosa.
E sto imparando anche le regole basi come non nominare una Nikon davanti un Canonista, non nominare una Canon davanti un Nikonista. Poi, ci sarebbe Fujifilm ma non ho capito se è da intenditori o da sfigati. Il confine è labile.
Avendo tutti una refelex, sono tutti fotografi. Semplice Watson! Più delle analogie di Socrate (o era Aristotele? Ma quanti anni sono passati dall'ultima volta che ho letto un libro di filosofia? Orrore!).
E se sono fotografi probabilmente avranno anche il marchietto in fondo alle foto e con buona pace di tutto il resto, se sei davvero fortunata, hanno anche la pagina fan su Facebook: *nomecognome* Photographer.
A tutto aggiungici che una bella parte di questi "fotografi" hanno anche le amiche modelle, semi modelle, quasi modelle o "a una modella non c'assomiglio neanche per sbaglio, ma tant'è..".
E mettiamoci che io non li sopporto perché in verità le reflex m'affascinano e io a premere click su questi aggeggini mi diverto un sacco, litigo un po' con la messa a fuoco e le mie foto non sono niente di che quindi il marchietto in fondo non ce lo metterei mai e non andrei in giro a dire "l'ho fatta io". E' una foto, una come un'altra.
Essere fotografi mi pare un po' diverso e probabilmente ha anche un significato più profondo.
Anche perché le pagine fan "photographer" per lo più contengono foto di scampagnate tra amici, bei primi piani per carità, qualche foto artistica con pozzanghera e arcobaleno ma non mi pare basti.
"Fai l'artista? 
E ce lo caghi che sei un'artista", direbbe qualcuno.
Da domani, io che ho un blog da più di un anno, mi faccio la pagina fan *nomecognome* blogger o ancora meglio *nomecognome* scrittrice.
Tanto ho un mac, un po' di fogli bianchi, delle penne, la moleskine, anzi ne ho due e qualche pennarello. Basterà?
E comunque, ogni tanto, anche a me riescono foto fighe quindi, forse, potrei dire di essere una fotoscrittrice o una scritfotografa o scrittricefotografa o una fotografascrittrice. Quale vi piace? Lo metto sulla biografia di Twitter (e sul curriculum vitae formato europeo con foto).
 Mi chiedo: sono io che mi critico troppo, sono gli altri che si prendono troppo sul serio, entrambi o "non so, non penso, non ho un'opinione in merito"?
Comunque sia ho trovato 60 motivi per rendere pubblico questo blog e 4 per lasciarlo così. Hanno vinto, stravinto con giubilo, i 4 motivi contro.
Chi l'ha detto che vince sempre la maggioranza? Non qui.

Sto cercando di scrivere i buoni propositi per l'anno nuovo che l'anno scorso mi è andata di culo.
Vediamo se mi riesce a farlo prima del 31.
In caso contrario: auguri a tutti voi, a tutti quelli che sono passati di qui, alle presenze fisse, alle presenze fisse anonime, insomma proprio a tutti tutti.
Buon inizio d'anno. Di cuore.

5 minuti di fotografie (e fotografie) che piacciono a me:

Elliot Erwitt





Koudelka 


 Steve McCurry




Fausto Podavini



Angelo Merendino




giovedì 26 dicembre 2013

So be good for goodness sake (Santa Claus is coming to town)


I primi Natali di cui ho ricordo sono chiassosi, confusi e incasinati. Perché qui, prima, si festeggiava in grande.
30, 40 persone in una stanza. La tombola, il mercante in fiera, i bambini che piangevano, che si rincorrevano, che cadevano. Erano Natali a porte aperte con cugini di primo, secondo, ottavo grado; suoceri, consuoceri, suoceri dei suoceri, cugini dei suoceri, vicini di casa dei cugini.
Tipo che annoiarsi era praticamente impossibile. 
Mi ricordo i cenoni della vigilia festeggiati a casa di una zia, con tavoli sparsi un po' per tutta la casa, mi ricordo le mille lire che mio zio mi passava sotto il tavolo quando si giocava a carte, mi ricordo gli scintillini che davano a noi bambini per festeggiare l'arrivo dell'anno nuovo.
Mi ricordo il Capodanno del 1999, che si cambiava il millennio, e io dicevo a mia cugina che 2000 era un numero troppo assurdo, allora lo scrivevo con un dito sulla carta da pareti della casa di zia. 2 0 0 0: guarda quanti zeri! Ci pensi? 2 0 0 0.
Mi ricordo che la felicità non era tanto scartare i regali, ma stare insieme e l'odore delle lasagne appena sfornate, gli antipasti su tutti i tavoli, il vestito buono delle feste, le candele alla vaniglia. 
Per tutti questi motivi non dovrei schifare così tanto il Natale eppure è un periodo che mi rende nervosa.  Perché i messaggini preconfezionati e mandati prima della mezzanotte, quelli che ti taggano su tutte le foto in tema per augurarti delle "serene feste", quelli che devono pubblicare duecento foto dell'albero per farti vedere che, sotto, ci sono i pacchetti di Tiffany e Chanel (esticcazzi!), quelli che non senti mai e poi resuscitano a Dicembre, io, tutti questi, non li sopporto.
Mi metto tristezza a vedere la gente nei supermercati, nei negozi di giocattoli, avvolta nelle pellicce fuori la porta della chiesa. 
Così da un paio di anni non mando auguri, non chiamo la gente, faccio regali solo se mi va e se c'è qualcosa che mi piace davvero, passo il Natale seduta per terra a giocare con la seienne.
Che io ho avuto feste sempre divertenti e lei no.
Ieri la guardavo mentre sistemava il succo di frutto e i biscotti per Babbo Natale. 
Anche se c'era l'annosa questione del camino che a casa sua non c'è. 
Se non scende dal camino, questo Babbo Natale da dove entra? 
Dalla finestra, ho detto io.
Sono chiuse, ha risposto lei.
E allora ha le chiavi di casa, ho detto io.
E lei si è stupita perché il porta chiavi doveva essere praticamente enorme. Miliardi di chiavi di casa. Oppure una sola, chi lo sa.
E forse questo Natale, di regali fatti con il cuore e pensieri sentiti, mi è stato un po' meno stretto. Ha vestito un po' di più la mia taglia, mi ci sono sentita quasi bene.
Guardando gli occhi della seienne mentre scartava la sua prima chitarra, cantando "tu scendi dalle stelle" con la voce più cretina che ho, ridendo con la nonna delle cose che non sa e che non so neppure io, giocando con la treenne che questa storia dei regali non ce l'ha ancora molto chiara.
Guardando un panorama bellissimo, che sembra quasi un presepe, alle 4 del mattino con gli amici con cui fai la notte di Natale (post cena con parenti, of course) ormai da anni, sempre quelli e sempre uguali.
Parlando di Andrea Pazienza, che non si fa mai abbastanza. 
E anche di quanto mi manca Roma, ma per ora abbracciatemi e non ci pensiamo (anche perché poi, quando sarò di nuovo a Roma, mi mancheranno gli abbracci e non potrò dirlo a nessuno).
E' stato un Natale dolce, come il pandoro con i cuoricini rosa e le stelline, che la seienne è impazzita quando l'ha visto.
E' stato un Natale non chiassoso ma di famiglia, d'amore, di calore, con poche luci e nastrini e ornamenti ma con l'essenziale.
E' stato perfetto.
E' stato il Natale che io penso sia Natale, che non è festeggiare l'arrivo di un bambino salvatore sulla terra ma festeggiare l'amore, gli affetti, curarsi le ferite dell'anima con abbracci interminabili e sessioni spietate di cibo al cioccolato.
E forse non sono più così tanto un grinch.

E sempre forse, questa potremmo chiamarla felicità. 
Lo so, lo dico spesso e poi torno a scrivere cose tristi ma è vero, sono felice. A giorni alterni.



lunedì 23 dicembre 2013

Troppo poco


Quando qualcuno ti ha dato tanto, tanto che non riesci a quantificarlo, come fai a lasciarlo andare?
Come si chiude la scatola con tutti i ricordi dentro, per riporla in qualche soffitta, e poi dimenticarla per sempre?
Non so come si fa. 
Io che gli amici sono gli stessi da dieci, ma anche quindici anni. Io che il mio ex lo sento almeno una volta a settimana e ho ancora le sue foto appese alle pareti della mia stanza.
Io, sì proprio io, che non so lasciare andare nessuno se penso che ne valga la pena. 
Io che mi sono anche stufata di scrivere io perché vorrei scrivere un po' di noi, di te, di qualcuno che non sia io.
Quantifichiamo insieme il dolore, la delusione, la rabbia che dobbiamo accumulare per dire basta? 1, 2, 10, 100?
Lo so che è Natale e siete tutti estremamente felici, presi dai pacchetti con i biglietti scritti a mano, le luci degli alberi, lo zenzero, la cannella, l'odore di fritto per casa ma io invece, a me, mi pare di vivere in una bolla di sapone.
A me, invece, mi sembra di essere sempre fuori posto e troppo pensante o troppo poco pensante, troppo truccata o troppo poco truccata, troppo vestita o troppo poco vestita.
Troppo nervosa, troppo ansiosa, troppo acida, troppo cinica.
Poi, ieri in mezzo a della gente, che conosco da una vita, non ero niente di tutto questo.
Poi, oggi ho visto una foto e nella foto c'era uno che sorrideva con un sorriso dolce e io quel sorriso, proprio quello, l'ho visto un paio di volte ma la prima volta l'ho visto (per davvero) l'anno scorso in questi giorni. E per quel sorriso, proprio quello, ho pensato di essere troppo poco. 
Che troppo poco è un controsenso bello e buono. O sei troppo o sei poco, no?
Comunque sia, nonostante le arrabbiature e le delusioni, ho guardato la foto e ho sentito il calore allo stomaco e al cuore e ho pensato che per quanto lui possa deludermi e farmi arrabbiare, resta sempre lui e io non ce la farò mai a cancellarlo completamente.
Mi verrebbero da dire molte cose, mi verrebbe da scrivere una lettera con una bic blu, piena di sbavature e cancellature. 
Si perde sempre qualcosa e io in questo gioco delle scelte ho perso un pezzo di me, forse quello più spensierato. 

Che poi per perdere avrei dovuto giocare o quanto meno combattere e io non sto facendo nessuna delle due cose. Mi sono ritirata subito, mettendo giù le armi e innalzando barricate.
E chissà se si può anche perdere poco, perdere solo un po'.

martedì 10 dicembre 2013

Ancora tu, ma non dovevamo non vederci più?


Ho iniziato questo post così tante volte che adesso non so più quello che volevo scrivere all'inizio.
Hanno messo le luci di Natale e via del Corso è di mille colori diversi. Forse, non proprio mille ma io la vedo colorata. 
Piazza Navona ha la giostra che gira fino a tardi e ci sono i cavalli e le tazze. Mi sono cantata tutto il tempo la canzone di Anastasia.
Sempre lì, mi sono fatta comprare quelle caramelle rosse lunghissime che hanno un sapore dolce e aspro insieme e mentre le mangio faccio tutte quelle facce strane perché un po' mi fanno schifo. 
Il Natale continua a non piacermi, però in queste settimane grazie ai ponti, più o meno lunghi, ho visto gente che vive più sù di qui, che sarebbe vicino Bologna.
Sono stati dei fine settimana movimentati, di treni, valigie, saluti e abbracci e famiglie (che non sono la mia). Tra nord e sud. 
Dalla mia, di famiglia, ci torno presto e non so ancora dire se mi manca oppure no. 
Al Colosseo hanno messo un albero gigante e bellissimo, solo che quando m'immaginavo questo giorno me lo immaginavo diverso e invece avevo una sciarpa che cadeva di continuo e qualcuno che ripeteva il mio nome e rideva ma non era chi avrei voluto lì, in quel momento. 
Ho fatto degli esami, li ho passati, non l'ho detto a nessuno. 
Mi sono persa sabato in una strada piena di macchine e poca gente, era quasi mattina e non sapevo come sarebbe andata a finire ma ero tranquilla e mi ripetevo che poteva andar malissimo ma anche bene. 
E' andata bene, ho ritrovato la strada di casa e poi ho trovato le ragazze ancora sveglie e quindi ci siamo messe su un letto a parlare d'amore.
Io non lo so cos'è questo bisogno improvviso d'amore che mi viene da dentro, che anche adesso che lo scrivo e ci penso mi viene quasi da piangere. 
Eppure quando, l'altro giorno, mi hanno preso per mano, ho sentito un brivido percorrermi il corpo e un rifiuto di qualsiasi gesto d'affetto che sia più di un semplice ciao, come stai.
Ma sono complicata io o tutto il resto del mondo? 
Continuo a pensare a quello che mi manca senza capire se mi manca davvero, continuo a credere nelle cose buone.
A metà Novembre avevo scritto la mia wishlist per Natale, ed era quasi divertente da leggere, ma non l'ho più pubblicata perché ho pensato che non voglio regali. Non sopporto questo scambio di niente, di gente che si rompe il cazzo a stare insieme ma lo fa perché deve.
Poi, quando ricevo i regali mi capitano due emozioni diverse: la prima, che capita quando capisco che il pensiero è bello ed è fatto perché mi vogliono bene davvero, è che mi sento inadeguata come se non lo meritassi; la seconda, che capita tutte le altre volte, è una gioia recitata come se stessi seguendo un copione, "cheee beeellooo. Ma graaaazieeeeeee". Con tutte le vocali allungate.
O il silenzio o le cantilene. Non so cosa sia peggio. 
Devo imparare ad andare avanti, a correre forte quando sento che certi pensieri mi stanno raggiungendo.
Che io, alla fine, non sono neanche così: non mi piango addosso, non perdo la testa. 

Ho voglia di cose semplici, parole antiche, rime sentite, cioccolate calde con panna, sciarpe fatte a mano, perdermi in un abbraccio, piangere per ore, schiacciare foglie, correre forte e gridare di più, dirti tutto quello che mi passa per la testa compreso il fatto che secondo me non sai che ti perdi, scrivere una storia lunga che non finisce bene, ripensarci e scrivere un finale a lieto fine.
Voglio un bollitore elettrico, un caffè americano, un bagno caldo, una doccia fredda, la pizza con la granella di pistacchio, i miei cani, un po' di sicurezza, la ghd per piastrarmi i capelli, le mani sporche di inchiostro blu, sapere i tuoi pensieri.
Ma se poi tu mi tocchi e penso che non voglio niente di tutto questo? E se invece non ci vedessimo mai più? 

"Ancora tu ma non dovevamo non vederci più?"


martedì 26 novembre 2013

25 Novembre 2013, il giorno dopo.


Le maglie rosse, le sciarpe rosse, le guance rosse ma per il vento freddo che mi ha quasi congelato le mani.
Una piazza completamente illuminata di rosso, con tutti questi fili che la attraversavano e si intrecciavano, uno sopra all'altro, passando per ogni angolo.
"Stop violence against women" dice una scritta bella in evidenza sul palazzone del governo.
Una signora dai capelli neri sta parlando al microfono e ci sono molte donne che annuiscono. "Già a scuola ci insegnano che si chiama ministro non ministra, che si dice avvocato non avvocata".
Le teste davanti a me fanno su e giù con la testa.
Io ci penso e dico che, insomma, a me se fossi "ministro" non me ne fregherebbe granché di essere chiamata "ministra". Poi questa cosa del mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini l'aveva già detta una scrittrice che leggevo a 14 anni.
Il libro era dorato, il nome della scrittrice a stampatello maiuscolo in rosso: ORIANA FALLACI. Più o meno così. Sotto c'era scritto: LETTERE A UN BAMBINO MAI NATO.
Con lo stesso colore e lo stesso font.
In questo libro, che è stato scritto quasi trent'anni fa, questa scrittrice dice al bambino che porta in grembo, che essere femmine è difficile perché non è un mondo fatto per noi.
Ci usano per lavare le mutande dei soldati, ci usano per cucinare, ci usano per scopare ma poi se restiamo incinte ci lasciano da sole. In questo libro, lei dice: se resti incinta ti lasciano tutti da sola se non hai un marito o non sei già sposata. Ecco, non ricordo se lo dice esplicitamente ma sono sicura che il senso era quello.
Che senso ha nascere donne in un mondo in cui anche dio è un uomo con la barba?
Poi, però, sempre la stessa scrittrice e nello stesso libro, cambia opinione: voglio che tu sia femmina perché essere femmine è il regalo più grande di tutti. E anche se tu fossi un uomo voglio che insegni agli altri che le donne vanno rispettate, che non fu Eva a fare peccare Adamo, che dio probabilmente è una vecchia con i capelli bianchi.
Non lo sto rileggendo, vado a memoria, ma sono quasi certa di essere abbastanza vicina al testo.
Molte volte mi sono interrogata sullo stesso argomento. Molte volte ho pianto di fronte l'ennesima donna ammazzata per mano del marito, del compagno, dell'ex fidanzato.
Però, non ditemi femminicidio. Non me lo dite.
Chiamiamolo per quello che è: omicidio.
E no, non è neanche un omicidio "passionale". E' omicidio e basta.
Passionale è un'altra cosa. Passionale è un bacio, è un gemito, è qualcuno che si aggrappa ai tuoi fianchi mentre state facendo l'amore. Passionale è un ballo attaccati, è cucinare e smezzare le pietanze.
Io pensavo, mentre quella con i capelli neri parlava della "ministra" e del "dobbiamo essere uguali" che, io, uguale ad un uomo non sarò mai.
Non lo sarò nella mentalità, non lo sarò nel cuore, non lo sarò nella forza.
Io non voglio essere come un uomo anche se ormai ci obbligano a essere come loro.
Io voglio essere una donna e voglio gridarlo forte che non me ne faccio niente di queste pari opportunità se poi esistono le giornate rosa, le giornate contro il femminicidio, le quote rosa.
Non me ne faccio niente se mi fate firmare un foglio di licenziamento prima ancora di assumermi, non me ne faccio niente se per parlare con un uomo ed essere presa sul serio devo fare la stronza e usare le parolacce.
Io voglio essere donna e voglio che un giorno, se mai avrò una figlia, possa esserlo anche lei.
Voglio dire a mia nipote che non c'è niente di male a voler studiare, fare carriera ma allo stesso tempo volere una famiglia e dei figli.
Voglio piangere davanti i film romantici e voglio ancora sognare davanti Tiffany con una brioche in mano e voglio che questo non sia inteso come segno di debolezza.
La nostra non è debolezza, è diversità e la diversità, in una società normale, non dovrebbe essere demonizzata.
Io voglio essere diversa che pari agli uomini ci faccio stare altri uomini.
Io voglio che mi apri la portiera, che mi compri il gelato, che pensi che è bello avere una donna al tuo fianco da poter proteggere.
Già vedo alcune di voi storcere il naso. Anni e anni di lotte buttate nel cesso da una che scrive su un blog che vuole essere diversa.
Ma è la verità: io non voglio essere pari. Io voglio rispetto.
Io non voglio che serva una piazza colorata di rosso per ricordarci che un essere vivente, sia donna che uomo, non si uccide mai.
Partiamo da noi, dai nostri figli. Partiamo insegnando loro che sì, siamo meravigliosamente e irrimediabilmente diversi. Diciamo loro che non c'è niente di passionale nel possedere un'altra persona: provate a recidere un fiore e tenetelo stretto in un pugno. Non è amore.
Iniziamo dalle piazze magari, che male non fa, ma poi ricordiamoci di dirlo ai nostri figli, i nostri alunni, i nipotini.
Cerchiamo di essere l'esempio. Per noi e per loro.

venerdì 22 novembre 2013

Ti volevo dire


Anche se un po' mi manchi, anche se io ci vedevo del buono in questa cosa, anche se tu mi sapevi di buono: di cornetto alla crema con lo zucchero a velo, di pomeriggi sdraiati su un prato, di librerie piene di pagine ingiallite, di sogni e di orizzonti.
Tu eri il buono di questa cosa. Ti ho idealizzato? Può darsi.
Mi sai ancora di buono. Anche quando mi viene da crollare, da franare come la terra quando piove tanto. Ecco anche in quei momenti penso che sai di buono come l'acqua fresca dopo tanto sole o come la pioggia dopo la siccità estiva.
Io, probabilmente, con te ho sbagliato tutto e ti ho fatto vedere il peggio. Io, probabilmente, non so di buono come te perché ogni tanto tremo come la mia terra, ogni tanto mi lascio andare alle scosse, ogni tanto anzi spessissimo sono preda delle mie insicurezze.
Però, forse, ne sto uscendo.

mercoledì 20 novembre 2013

D.


Attraverso la strada e non guardo mai nè a destra nè a sinistra. Non che non me l'abbiamo insegnato, anzi. 
La mano destra è quella con cui scrivi, a destra c'è la porta e anche il muro con appese le lettere dell'alfabeto, A come Ape, B come Birillo, C come Cane. A sinistra c'è la finestra e fuori dalla finestra c'è la strada e su quella strada, sempre a sinistra, c'è il papà di Paolo che di mestiere fa quello che aggiusta le macchine.
Comunque, io la strada, quando attraverso, non la guardo mai, anche se le maestre mi hanno insegnato e ancora mi ricordo. 
Quindi, finisce sempre che qualcuno mi tiri per il braccio.
Mi trattengono mentre loro controllano che si possa attraversare, poi dicono che sì, ok, si può. 
Tipo, l'altra sera è stata la mia coinquilina. Un po' prima era stato qualcun altro.
Ed è una cosa che in fondo, ma non l'ammetterò mai, mi piace. 
Mi piace pensare che, nonostante tutto, ci sia qualcuno che si preoccupi non di me ma per me.
Io penso che sia un gesto d'affetto puro. Incontaminato.
Perché le persone così mi danno lo spazio di essere fragile, di piangere un po', di essere distratta dalle luci, di pensare un po' meno.
Ultimamente cammino per strada e penso sempre che mi manca qualcuno che mi ripeta che sono brava.
Sono in equilibrio su questo filo e basta un niente perché io cada e mi faccia male. Mi guardo intorno e non c'è nessuno, eppure penso che basterebbe che ci fosse qualcuno a destra o a sinistra (che so riconoscere) a dire: "brava, continua! Un passo alla volta. Brava. Stai facendo bene, non ti fermare".
Mi sento come quelle ballerine da carillion che la gente carica, carica, carica e poi fa girare con  una musica insopportabile in sottofondo.
Con quel sorriso irritante sul volto.
Che vuol dire? Non lo so.
Non so un sacco di cose. A lezione ho scoperto che è un bene.
Mi faccio molte domande ultimamente e, di solito, le faccio a me stessa.
Mi hanno detto che restare è difficile tanto quanto andarsene. Stronzate.
Restare è comodo, è facile, è un modo per tenere a bada i sensi di colpa e accarezzare l'abitudine.
Andarsene è doloroso, straziante, liberatorio, bellissimo. In ordine, così come li ho scritti.
Lasciare a metà qualcosa non so com'è, non ne sono capace con i libri, con i film, con le serie tv, figuriamoci con le persone. Non so come facciate voi a sopportare questi rapporti intermittenti che si accendono e si spengono come le luci di Natale, che hanno già montato alla Coin vicino casa mia.
Ci sono, non ci sono, ci sono, non ci sono, ora sì, ora no, ora ti amo, ora forse non lo so.
Voi persone così siete assurde, egoiste, insopportabili.
E probabilmente, voi persone così, non capirete mai la dolcezza di qualcuno che si ferma per strada per controllare che non passino macchine o, che ne so, qualcuno che ha il doppio dei tuoi anni e potrebbe essere tuo padre, ma ti manda un sms al giorno per sapere come stai, se hai mangiato, se stai studiando.
Non capireste mai il bisogno di camminare su un filo lungo e in bilico solo per sentirsi dire brava, perché per voi sarebbe un modo per piangersi addosso e invece è solo bisogno di certezze e di presenza.
Ho molti dubbi in questo periodo, talmente tanti che ne dimentico un paio al giorno.
So quante kcal ha un Crispy Mcbacon, so che la mattina a lezione arrivo tardi anche se mi sveglio prestissimo, so che questa è la vita che voglio e so che sono felice di aver rischiato.
So che mia cugina mi ha comprato un rossetto fucsia perché secondo lei mi starebbe bene e io quando me l'ha detto mi sono sentita una bambina a cui regalano la prima trousse.
Ho dei dubbi sul PD, sul Papa, su Barbara D'Urso che con la faccia contrita intervista minorenni , sui miei punti neri, sulla gente che si sposa perché andarsene e lasciare tutto sarebbe troppo complicato, sul blu e il nero accoppiati insieme, su quelli che dicono che ti amano e poi la sera scopano un'altra, su quelli che dicevano "ti adoro" e poi ti trattano di merda.
Mi faccio molte domande, mi rispondo sorridendo, non mi piango addosso. Non piango proprio perché non mi ricordo più come si fa. C'è un bottone da qualche parte per attivare la lacrimazione?
Non dormo più.
Desidero qualcuno che rinunci al giubbotto per darlo a me perché ho freddo, che guardi le macchine che passano prima di farmi attraversare, che mi stringa forte tutte le notti che qui ci sono i tuoni che fanno tremare le finestre e io ho paura.
Desidero qualcuno che sappia esserci e che risponda alle mie domande.
Desidero che è un'altra bella parola che inizia per D.
Dubbi.
Desidero.
Dormo (speriamo).

(Sono quasi le 3. Il post non lo rileggo. Probabilmente non ha neanche senso.
Scusatemi.)

giovedì 7 novembre 2013

Stacce


C'è un campo piccolo. 
Davanti al campo ci sono delle panchine.
E io sulle panchine, davanti il campo piccolo, mi siedo spesso nel pomeriggio e guardo le foglie per terra che stranamente sono di un rosso e di un giallo intenso. Schiaccio le foglie, leggo e un po' mi guardo intorno.
Le foglie fanno un rumore che è simile a un cracker che si rompe. Sono friabili. Fri abili. In ordine penso a Banderas che impasta i cracker (s'impastano, no?), alla terra friabile, al fango. E' che ho i pensieri pindarici. 
Dentro al campo si tirano la palla, ma proprio addosso, e s'insultano e ridono. "Regazzini", dicono qua. Regazzini con le Jordan ai piedi e con i pantaloncini corti.
Penso che a 883 km da qui, i "regazzini" li chiamano "carusi" e che alcuni di loro io li conosco e me lo ricordo quando stavano dentro un campo, con le Jordan e i pantaloncini corti.
E mi ricordo anche che uno di loro non lo vedo da anni e non perché non avrei voluto. E' solo che non si può. 
E mi ricordo che, sempre lui, mi diceva ché te li allisci a fare i capelli? Lo sai che riccia sei più tu? Almeno, si capisce subito come sei. E come sono? "Selvaggia". 
E mi ritrovo a schiacciare foglie che fanno crick e a sorridere di quei ragazzini che ne hanno messo uno all'angolo e gridano: "stacce".
"Stacce", è una parola che mi piace un sacco.
E se avessi avuto una macchina fotografica, non per forza ultra tecnologica, una qualsiasi, e avessi saputo fare delle foto più o meno decenti, magari li facevo vedere anche a voi i "regazzini" con le Jordan e le maglie a maniche corte a Novembre.
E voi, non potevate sentire che dicevano "stacce" ma quello ve l'avrei raccontato io.

lunedì 4 novembre 2013

E non so più come si fa a trovarlo


L'altro giorno ho ritrovato Winnie Pooh, quello da collezione con il cappello e la sciarpa al collo, che io me la ricordo ancora la scena: c'erano le luci di Natale a illuminare una via del Corso bagnata, io ti guardavo e dicevo che lo volevo, mi serviva, praticamente l'hanno fatto per me. Tu ridevi.
Hai diciotto anni, dicevi. Non puoi volere ancora Winnie Pooh.
E invece sì e quindi, alla fine, finisti per comprarlo insieme al peluche di Lilly & il Vagabondo.
E bagnarci insieme sotto la pioggia di una Roma eterna e immensa. Io con il giubbotto nuovo e inzuppato e tu con il tuo Belstaff che restava asciutto e non si capiva perché.
In quei giorni, ti ho chiesto per la prima volta di andare a vivere lì.
"Ma c'è il traffico e la vita è cara" mi hai risposto.
Ho alzato le spalle e ti ho risposto che avevi ragione tu. Come sempre.
Poi, c'è stata Milano. Ti ho trascinato per Brera perché è l'unica parte della città che mi piace e ti ho portato a vedere Hayez e Caravaggio. Tu che avresti preferito confonderti tra le divise arancioni e invece dovevi accontentare me che, in quel periodo, di arancione non volevo vedere nulla.
E Milano piaceva a te. A me faceva venire l'angoscia perché mi sentivo sempre troppo piccola, troppo lenta, troppo estranea.
"Milano è efficiente", dicevi.
Milano mi fa schifo, ti rispondevo.
E quella settimana di convivenza da sperimentare. La mattina mi lasciavi sola a dormire, mi baciavi la fronte e poi andavi via. Io bevevo il cappuccino schiumato, con poco caffè che a me il caffè neanche piace e poi mi mettevo a studiare. Tu arrivavi all'una e ti mettevi ai fornelli. Cucinavi tu perché io sono incapace e a te piace mangiare bene mica le schifezze che mangio io.
Girare in mutande per casa, finire a fare l'amore sul divano, sul letto, sul tavolo, per terra.
Questa è la vita che voglio per sempre. Per sempre.
Un Natale, l'ultimo, mi hai detto "ti porto a Parigi". Parigi non mi piace, voglio andare a Londra.
Londra che ha di romantico? Niente.
Che abbiamo di romantico noi? Niente.
E sarà finita lì la favola e il perché io ancora non l'ho capito.
Le cose iniziano e finiscono, ce ne dobbiamo fare una ragione. Però, il mondo non si è fermato quando noi abbiamo finito di guardarci innamorati come in quella foto dove io ho le codine e tu mi versi la Coca Cola in un bicchiere o in quell'altra che è ancora in camera mia, che io guardo la fotocamera e tu guardi me.
Qualcuno doveva accorgersene e dircelo che non ci amavamo più.
Invece, abbiamo continuato e continuato e logorato tutto. Ci siamo messi d'impegno a distruggerci a vicenda.
Tanto che la mia pelle non riconosceva più le tue mani e pensavo "ma tu che vuoi? Ma tu, in fondo, chi sei?". E poi, piangevo dei miei stessi pensieri che erano ingiusti e cattivi che tu volevi darmi il mondo e a me non bastava più nemmeno quello.
E adesso di cosa ho bisogno? 
Adesso che con me stessa riesco anche a parlarci bene, a farci lunghe conversazioni. Adesso chi voglio? 
Qualcosa come tornare a girare nuda per casa, qualcuno che torna e mi prende un po' in giro, poi mi morde i fianchi che anche se sto dimagrendo sono sempre lì, un po' più pronunciati. 
Qualcuno che mi tenga la mano mentre dormo.
Qualcuno mentre dormo. 
E' più di un anno che ti ho lasciato e mi sono detta che non avevo più bisogno di nessuno. Falso, lo sapevo.
Mi sono raccontata la storia della donna che si basta da sola. Falso anche questo.
E' vero non credo al per sempre, non credo alle cose che durano nel tempo.
Credo negli abbracci che ti lasciano i segni nel corpo, credo nei piccoli gesti di ogni giorno come un ti penso, un mi manchi, un vieni qui che ne ho bisogno. 
Credo nelle notti passate con qualcuno che ti stringe da dietro come se tu fossi una cosa importante.
Credo in qualcuno che non è per sempre ma è per ora.
E non so più come si fa a trovarlo. 

domenica 3 novembre 2013

Wor(l)ds #5


Le premesse non le faccio nemmeno più.
I lettori attenti avranno capito che sta diventando una rubrica fissa e che la amo molto.
Questa settimana c'è anche un po' di me (purtroppo poco davvero). 
E se vi sbrigate, entro domani, potete partecipare anche voi al wor(l)ds #6
900 caratteri, spazi inclusi, e la vostra creatività.
Se avete un po' di tempo, ecco anche il pidieffe di wor(l)ds #5 da leggere. E' davvero bello. 

E poi, come di consueto, ecco il mio.


Si alzò tardi e nella penombra della stanza cominciò a stiracchiarsi. 
Poggiò i piedi per terra e un brivido di freddo le percorse tutto il corpo, per fermarsi alla base della schiena. 
Le foto appese ai muri della stanza la osservavano, anche quella nella cornice bianca, a destra del letto. Ogni mattina si svegliava e le guardava tutte con riconoscenza. C’erano il suo passato e il suo presente in quei volti sorridenti. Tutto ciò che l’aveva portata a essere quello che era oggi.
Su un post-it rosa, attaccato alla porta, c’era un buongiorno scritto in bella grafia. “Tesoro, ti ho già preparato il caffè. Ci vediamo per pranzo e non vedo l’ora.
p.s. eri così bella mentre dormivi che non ho voluto svegliarti”.
Baciò quel pezzo di carta, sbadigliò rilassata e andò per accendere il fornello in cui era poggiata la caffettiera già pronta.
Guardò fuori dalla finestra e pensò che era felice.

martedì 29 ottobre 2013

Quando uno dice free kiss e un altro capisce Friskies


Sono diventata quel genere di persona che alle scale mobili continua a camminare e s'incazza se non trova libera la parte sinistra.
Ok che siete turisti, ma io no. Ho degli orari e sono sempre in ritardo e voi dovete spostarvi.
Sono diventata quel genere di persona che corre e cammina e mentre fa entrambe le cose scrive sms e parla al telefono.
Però, sono felice.
Di una felicità che non riesco a spiegare e che probabilmente non traspare neanche da questo blog.
Non so perché ma qui non mi viene mai voglia di scrivere le cose divertenti che mi capitano. Sarà che è l'unico spazio dove mi concedo ancora di essere me stessa, senza filtri e senza maschere.
Oggi era in metro e sorridevo da sola, a me stessa.
Ci pensi che ci vivi in questa città? Ti ricordi tutte le volte che l'hai sognato? Ti ricordi quand'eri bambina e dicevi che volevi vivere a Roma?
Ecco, ci sei riuscita.
Anche se a casa mi parlano napoletano, faccio ripetizioni a un bambino che non sa una parola d'italiano neanche per sbaglio (e parla napoletano), anche se quando segna il Napoli dalla strada si sente la gente urlare fortissimo, anche se molti indizi direbbero che stai in Campania, in realtà vivi a Roma. Davvero.
Mi piace ascoltare la gente e sui mezzi sono talmente tante le storie che s'intrecciano e vivono davanti i miei occhi che è difficile pure ignorarle.
Stamattina, per esempio, c'era uno a telefono che si disperava perché la moglie doveva farlo uscire proprio venerdì che "gioca aa Roma!".
Poi, Roma è folle e gigante e caotica e poetica e commovente.
E ci sto perdendo un sacco di sonno.
Ogni volta che metto il pigiama e decido di andare a dormire, allora, le coinquiline pensano bene che sarebbe il caso di uscire.
E io che faccio, resto a casa? Ma sei a Roma!
Allora, mi rivesto e ricomincia tutto da capo.
L'altra sera a Campo dei fiori, si avvicina uno che continuava a dire "Free kiss". Una delle due coinquiline mi guarda e fa: "Friskies?!? E che vor dì?".
Questo ci riguarda e se ne esce con un: "italiane? Siete sempre le più belle".
Se lo dici tu.
Sempre la stessa sera, sempre a Campo dei Fiori, un americano s'avvicina e mi prende quasi in braccio, con la sua faccia a un cm dalla mia, mi chiede un bacio.
"One kiss?"
Rispondo di no e sposto la faccia. Questo mi rimette per terra e se ne va.
Che dico: turisti in vacanza a Roma, dovete occuparmi le scale, intralciare la strada e per di più fare i molesti fino a questi livelli?
A parte tutto volevo dirvi che il cielo è sempre bello e che ancora non c'è nessuno con cui condividerlo.
E volevo dirvi che qui fa sempre caldo ma io un po' d'autunno, quello vero, lo desidero un sacco.
Però, sono felice anche se ti dicono "free kiss" e tu capisci "Friskies".
Sono felice.

giovedì 24 ottobre 2013

WOR(L)DS #4



Ecco a voi il pidieffe del terzo wor(l)ds di Zelda
Come vedete il viaggio continua ed è sempre molto appagante.
Adesso quando scrivo non faccio più caso al limite dei 900 caratteri e riesco a chiudere anche a 800 senza problemi. 
Certe volte pensiamo che una cosa bella deve anche essere lunga quando, invece, anche in poche righe si può dire tutto. 

E' inutile che vi dica che è già sul blog il kit per il quinto "capitolo". 
Stavolta, sono un po' in crisi e non ho idea di cosa scriverò ma ci sto pensando. C'è tempo, come sempre, fino a Lunedì sera.

Intanto qui, il mio wor(l)ds #4 (che trovate anche nel pidieffe).


L’orologio nero di Sergio segnava le 22.30. Marina, guardava fuori dalla finestra. 
Lui le aveva appena dato un anello, non uno qualsiasi ma quello che si mette al dito per dire “sì, lo voglio e sarà per sempre”. Non aveva detto sì, era rimasta in silenzio con le lacrime agli occhi. A Sergio, è ovvio, voleva bene ma non poteva davvero sposarlo. Per sempre, è una parola troppo grande anche per lei. 
Le era sembrato di essere stata ingiusta, di avergli conficcato tanti aghi sul cuore. O almeno, ero quello che suggeriva l’espressione di lui. 
In quel momento, in quel preciso istante, Marina realizzò di avere fatto il passo più coraggioso della sua vita ma non poteva fermarsi lì. Pensò a Istanbul e agli occhi dell’uomo che le aveva fatto perdere la testa. Domani avrebbe prenotato un biglietto e sarebbe partita.
Domani sarebbe iniziata la sua nuova vita.
“Sergio, prima o poi, capirà”.

sabato 19 ottobre 2013

WOR(L)DS #3


Continua WOR(L)DS che è un progetto che mi entusiasma e mi appassiona in un modo tutto suo. Non so perché ma negli oggetti, io, ci vedo sempre un po' di tristezza eppure non sono così pessimista di solito. 
Le regole, ve l'ho già detto l'altra volta, non sono tante: 900 caratteri al massimo e un po' d'ispirazione. 
Zelda/Camilla, ogni settimana cambia il kit di scrittura e ogni settimana diventa più interessante.
Per i curiosi, qui c'è il pidieffe con tutte le storie del terzo kit. Ce ne sono di molto belle e, tra l'altro, trovate anche la mia nelle prime pagine (sono molto contenta della cosa e un po' gongolo!).
Mentre qui, trovate tutto il kit materiali per partecipare a WOR(L)DS #4. Che aspettate? Non vedo l'ora di leggere anche voi. 

WOR(L)DS #3


“La neve, tesoro mio, copre tutto, anche i pensieri. Soprattutto quelli. La neve, gioia mia, è come l’amore”. 
Quand’ero bambina, potevo stare delle ore a guardarla e ad ascoltarla mentre spolverava tutte quelle palle di neve.  
Ogni volta che a Roma cadeva la neve pensavo che era nonna a casa che aveva mosso la palla con dentro il Colosseo. Anche quando ci siamo trovati io e  te, abbracciati a scaldarci, mentre la città eterna diventava bianca. 
Tu dicevi che la neve e il freddo si combattono con gli abbracci stretti. Passavamo tutta la notte così, a dimenticare che fuori non c’erano più neanche le strade. 
Solo che prima o poi arriva il sole e la neve sparisce.
Nonna, però, non mi aveva mai detto che la neve si scioglie e l’amore finisce.
Ma ho deciso che non piangerò. Giro la clessidra e quando l’ultimo granello di sabbia sarà dall’altra parte, io avrò finito di soffrire per te. 

mercoledì 16 ottobre 2013

Roma con amore


Io e Roma ci stiamo corteggiando in un modo un po' strano.
Tipo, io faccio la parte della stronza, di quella che la sfida di continuo e cambia direzione, metro, autobus, strade. Come a dire "mollami un po' e fammi perdere una volta".
Lei, invece, mi mostra imperterrita il lato migliore come quelli che ai primi appuntamenti ti aprono la portiera della macchina e ti dicono che sei bellissima, anche se non lo sei.
E quindi, io esco in ritardo e lei mi fa trovare l'autobus sotto casa, io giro a destra piuttosto che a sinistra e trovo lo stesso quello che cercavo.
E poi ride, cioè Roma ride. Ma tanto, eh.
E si fa un sacco di discorsi addosso: i ritardi dell'autobus, i ragazzini che non vanno a scuola e alle 12 sono tutti in giro con l' eastpack in spalla, la Roma, non ci sono più le stagioni di una volta, il capitano, la partita, la crisi, ci siamo lasciati e poi ripresi, la Polverini, Zingaretti, la pizza bianca al metro, No tav, Lampedusa, i fuori sede che sono come gli emigrati e gli emigrati che sono come i fuori sede, ci vieni in assemblea?, zio ci regala il biglietto per l'Iran, devi mangiare sano, stasera ceniamo da mia sorella.
Che io potrei stare per dei giorni in silenzio ad ascoltarla, senza dire una parola, senza annoiarmi mai, senza mai sentirmi davvero sola.
Roma mi continua a regalare storie e le vedo come piccoli doni di benvenuto.
Non c'è una cosa in questa città che non mi parli di vita che pulsa. 
Poi, in realtà non conosco moltissima gente e passo il tempo a leggere e a scrivere sulla moleskine. Non per sembrare stronza ma perché mi pare il modo migliore per impiegare i tempi morti.
Mi manca un po' la sicurezza di casa, gli abbracci degli amici, qualcuno a cui poter dire "guarda quant'è bello il cielo oggi" ma è una cosa che riesce a passare. 
E non è così complicato immaginarsi una vita qui. 
Anche da sola, anche in silenzio solo in sua compagnia e delle storie che circolano e che mi fanno sentire bene.

venerdì 11 ottobre 2013

Wor(l)ds #2



Mi sono imbattuta in questo progetto di scrittura per caso.
E' da un po' che non riesco più a scrivere di me ma che ho voglia d'inventare storie, di descrivere colori che non ho visto o immaginare dialoghi che non ho vissuto.
Allora, ho deciso di partecipare.
Le regole non sono molte e le potete trovare qui: Zelda.
900 battute, comprese di spazi, e un kit da scrittura.
Poi, liberate la fantasia e lasciate scorrere le dita sulla tastiera.
In questo pdf trovate la raccolta delle storie di questa settimana.
Trovo che sia un progetto estremamente entusiasmante ed è bello vedere da quante angolazioni diverse si possono vedere gli stessi oggetti.

Questa è la mia. Wor(l)ds#2

Rue Beaubourg, 19” e mentre lo dicevi, arrotolavi la erre. 
Mi avevi trascinato per tutta Parigi, solo per vedere quel quadro: una donna dal collo lungo e il viso inclinato da un lato. 
Un’altra avrebbe preferito la Tour Eiffel, gli Champs Elisèe ma tu no, sei sempre stata diversa.
Indossavi un maglione sgualcito e continuavi a mettere del burro cacao sulle labbra screpolate dal freddo di quell’inverno così lungo e rigido.
Al collo avevi un medaglione di giada, te l’aveva regalato tua madre per i tuoi diciotto anni. L’unica cosa che ti è rimasta di lei. Oltre quel sorriso storto, che avevate entrambe, identico.
Seduti su quel taxi, sembravamo una strana coppia. Io con i capelli bianchi, tu che giocherellavi con il medaglione. Io con la faccia stanca e tu con la pelle di pesca. 
Poi, ti sei voltata. Il sorriso storto di tua madre, la erre arrotolata:
“Dopo mi porti da Ladurèe, Papà?”.

domenica 6 ottobre 2013

Oggetto: prenotazione volo

"Prenotazione volo" è l'oggetto dell'ultima email che ho sulla casella di posta.
L'ho aperta un po' titubante. Mi tremavano le mani, oppure il cuore. Devo ancora capirlo.
Sul mio letto ho diviso i vestiti per stagione: invernali da un lato, autunnali da un altro, estivi dentro gli scatoloni.
Poi, li ho divisi per colore: gradazioni del viola, del grigio, del blu, del nero e basta. Mi ha fatto strano vedere quanto piatta è la mia vita in quanto a colori.
Ho un volo ad ora di pranzo, arriverò giusto per il caffè del pomeriggio oppure neanche per quello. Ma che importa? Il caffè non mi piace. 
Dirò "sono arrivata, è tutto bellissimo. Sono felice". 
Poi, probabilmente piangerò perché io lo faccio sempre. 
Imparerò a camminare svelta o a prendermi il mio tempo. Imparerò a stringere il cuscino e a chiudere la porta. 
Imparerò a scandire bene il mio nome e a sorridere ogni volta che devo dire "piacere di conoscerti".
Sono un fiume in piena e sono riva del fiume allo stesso tempo. 
 Ma adesso ho i vestiti grigi con i vestiti grigi, quelli viola con i viola, neri con neri, blu con blu. Adesso ho un'email con oggetto: prenotazione volo.
Adesso, c'è poco da essere fiume e da essere riva.
C'è solo da vivere e da sperare di non piangere troppo ma neanche troppo poco.
Per dire, io in questi giorni ascolto Marco Mengoni (che neanche mi è mai piaciuto) e mi commuovo. Oppure metto il privato su spotify e scelgo le canzoni che mi scavano dentro allo stomaco e lo sezionano, in silenzio, tra maglioncini divisi per colore e fotografie da conservare chissà dove.
E vorrei, anche solo per un secondo, tornare indietro ed essere di nuovo quella bambina che aspettava davanti la finestra l'arrivo degli scatoli pieni di libri nuovi, o quella ragazzina che leggeva "Il Gattopardo" e poi lo raccontava orgogliosa alla professoressa o quell'adolescente innamorata che imparava a memoria Catullo. 
Oppure vorrei il coraggio di salutare tutti ed avere la certezza che questo posto non mi mancherà mai, che non inciamperò nei ricordi e negli odori di questa terra. Vorrei avere la certezza che i sorrisi del "piacere di conoscerti" mi riusciranno bene. 
La certezza di andare per la mia strada senza avere mai il bisogno di prendere il telefono e chiamare chi sarà vicino con il fisico ma mai abbastanza con il cuore. 
Vorrei un sacco di vorrei.
Intanto, stampo l'email con oggetto "prenotazione volo", poi si vedrà.

p.s. Manco da due mesi in questo posto. Nel frattempo tanto è cambiato.
Il blog ha spento la prima candelina e non ho scritto nulla. 
Sono talmente fiume che non sono stata capace di scrivervi. Bastava un secondo, uno sguardo, un temporale che tutto quello che volevo dirvi era già cambiato un'altra volta.
Arriveranno tempi migliori. Spero.

venerdì 16 agosto 2013

Dio, se sei bella


Dio se è bella ed è l'unica cosa sensata che riesce a pensare.
D I O S E S E I B E L L A. Ma anche se te lo dicessi, adesso, anche se lo gridassi a questa piazza vuota che senso avrebbe? 
Lei parla e parla e ogni tanto sposta i capelli a destra, come un piccolo e dolcissimo tic nervoso. 
Si raccontano storie a caso: di lei bambina che cadeva sempre dalla bici e si sbucciava le ginocchia, ma poi il disinfettante non voleva metterlo mai, di lui che a 15 anni voleva diventare un campione del calcio, di lei adolescente che ascoltava quella musica ridicola che canticchia anche adesso.
Lei ha dei capelli bellissimi: castani e un po' mossi, come tante piccole onde che le cadono sulle spalle. Però, da tutta la sera, continua a raccoglierli sulla nuca, scoprendo degli zigomi più decisi, scoprendo gli occhi belli come il mare.
Si conoscono da un po', ma da soli e così vicini non erano rimasti mai. 
Lei si rannicchia sulle gambe, in una posizione da bambina indifesa, come a dire: "se devi farmi male, fallo piano". 
Lui continua a guardarla e a pensare che non è così che deve essere, non ora, non lei. 
C'è un'altra, in un'altra città ed è a lei che ho fatto delle promesse. Chissà, cosa starà facendo l'altra in questo momento. Magari, guarda la tv sullo stesso divano su cui tante volte abbiamo fatto l'amore o, magari, è per terra su quel tappeto che abbiamo comprato all'Ikea e che a me neanche piaceva. 
L'altra è l'amore per sempre e lei, invece, cos'è? 
D I O S E S E I B E L L A. 
E non bella e basta. Sei Bella da riempirmi gli occhi, bella che vorrei sapere di te tutto quello che non ho potuto vivere con te, bella che mi fai male quando ridi, bella che se guardo ancora questi occhi finisco per baciarti e poi ti porto nell'altra stanza e usciamo domani mattina stanchi, sudati e con gli odori mischiati. 
Lui, cerca di sfiorarle una gamba ma si ferma a metà e la mano resta lì, in quell'angolo indefinito, e invece di toccare carne, afferra aria. 
La luce gialla della piazza sembra esistere solo per loro.
Lei abbracciata alle sue gambe e lui a stringere i pugni per non toccarla.
Entrambi persi in quel momento in cui si sceglie: abbasso le gambe e mi avvicino, la sfioro, lo bacio, facciamo l'amore, è solo per stanotte, è per tutta la vita.
Quella linea sottile che separa il coraggio dall'abitudine, dalla sicurezza, dal "sto facendo una cazzata". 
Lei si stringe da sola ancora più forte e se fosse possibile lo farebbe ancora di più e pensa ma tu da me che vuoi? ma tu perché sei qui stanotte? ma noi due insieme che c'entriamo? 
E sono domande che non hanno bisogno di uscire dalla sua testa, perché ci sono, le sentono entrambi senza che nessuno parli davvero.
E lui le risposte non le ha, probabilmente non le avrà mai. 
E poi, c'è quell'altra con il tappeto dell'Ikea, con la casa, le promesse, l'amore. C'è quell'altra che è un porto sicuro mentre lei è bella e poi? 
D I O S E S E I B E L L A e aiutami a dire bella.
Si farà tardi questa notte e a un certo punto uno dei due dirà che ha sonno, domani la sveglia suona presto, l'altro annuirà. Un bacio della buona notte sulle guance.
Un bacio della buona notte che è una scintilla, che è una promessa, che non è niente.
"Buona notte"
"A domani".
E in quel domani tante speranze.

Questo è quello che ho pensato dopo aver visto una foto che ha pubblicato Stazzitta
Ecco, per me quei due sono questa cosa qui.
Per voi? 

martedì 6 agosto 2013

"Lei, Lui, Firenze"


Abbiamo aspettato un po', quanto basta perché qualcuno mi chiedesse se era tornato tutto come prima, se eravamo di nuovo e ancora quella gran coppia invidiata dagli altri. Ho fatto cenno di no con la testa, mi hanno sorriso in risposta. La gente non ci capisce.
Ci siamo seduti ad un tavolo per quattro ma eravamo in due e ci stavamo larghi in quel tavolo che un po' ci avvicinava anche se non volevamo.
Mi ha chiesto se volevo del vino, ma lo sa che con il vino non ho un buon rapporto. "Vino bianco", ha detto sicuro. Vino bianco, allora sì.
Ha ordinato qualcosa da mangiare, da dividere.
Mi guardavo intorno e mi sembrava di vivere una scena già vissuta mille volte. Come un deja vu ma più reale.
"Come stai", gli chiedo.
"Stanco, come sempre". Sorride. Mi guarda.
"Raccontami di te, ti prego", con la testa da un'altra parte, con il pensiero verso qualcuno che non ricambia e che non sa quanto mi piace il vino bianco e non saprebbe nemmeno ordinare al posto mio.
"Pensi davvero che sia una buona idea, stare seduti in un bar fino alle nove di sera? 
Bere un altro Bianco Sarti guardando la gente, discutere di ferie e lavoro, fare finta di niente".

"Che vuoi che ti racconti?".
Voglio che mi racconti che ti sei innamorato di un'altra con gli occhi più belli dei miei, più intelligente di me, che parla meglio e si lamenta di meno.
Tengo un lembo di un tovagliolo e lo stringo forte.
"Voglio che mi racconti di te!"
"Sei tu quella che viaggia!".
Continuo a stringere un lembo del tovagliolo che è come un appiglio a qualcosa che non fa male. Non come le sue parole, non come il mio stomaco che non sente le farfalle. E porca miseria, perché non puoi sentirle? E' quello giusto, ci vuole tanto a capirlo?
"Magari andrò a vivere a Firenze. Ho chiesto trasferimento anche lì".
"Parlar di Firenze, di come è invecchiata dall'ultima volta che l'ho salutata".

L'anno scorso quando ho deciso che era finita ero lì, a Firenze.

Seduta dentro una libreria del centro, il thè caldo e un libro da sfogliare. Una donna anziana, con i capelli riccissimi e grigio cenere, che leggeva il suo libro ad alta voce e rideva.
Ma in un modo così bello, ma così bello, che a me sembra di sentirla anche adesso.
Io l'ho capito lì, che tra noi era finita. L'ho capito mentre avevo il telefono scarico, fuori c'era un gran freddo e lui non mi mancava neanche un po'.
L'ho capito perché il sorriso di quella donna era quello di una a cui non mancava niente e io mi sentivo talmente vuota che per riempirmi ci voleva qualcuno che ci credeva in me. E lui non ci credeva.
L'ho capito ogni volta che, in quell'anno, sono tornata a Firenze perché ho cominciato a sognare di nuovo. L'ho capito quando qualcuno mi tendeva la mano e lui mi diceva che erano solo sogni.
"Penso che sia una follia andare all'Ikea, c'è sempre una gran confusione anche di sabato sera.
Poi, lo sai mi fa tristezza guardare la gente che sogna di comprare tutto e si accontenta di niente".

Dice Firenze e mi viene da ridere forte. Ride anche lui.

E' la situazione di un film riuscito male: seduti al tavolo di un ristorante, a sorseggiare vino e a parlare di lui che parte per Firenze.
Che sempre l'anno scorso, quando tornavo e gliene parlavo con occhi sognanti finivamo per litigare, che "che avrà di così speciale 'sta Firenze?".
E io non sapevo rispondere e non so farlo neanche oggi.
"Mi guardi e sorridi, non sono cambiato dall'ultima volta che mi hai perdonato. 
Che cosa vuoi che ti dica? Con te sto bene, anche se ormai è finita."

Abbiamo finito subito il vino bianco e lui se ne già versato un secondo bicchiere. Gli butto addosso un po' delle mie preoccupazioni, parlo così senza fermarmi e senza prendere respiro.

E' la parte più razionale, più riflessiva di me.
Tra qualche anno lui sarà un medico fantastico e io chissà che cosa.
Penso che probabilmente, nonostante tutto, con lui non tornerei mai.
Ma com'è che finisce l'amore? Così, una mattina ti svegli e dici "Ok, è stato un piacere, finché è durata".
"E lo so che non basta un bicchiere per sorridere e dimenticare, le mie solite bugie, le mie sciocche fantasie. Ma stasera ho voglia di brindare a un'altra storia d'amore per noi che non ci amiamo più".

Che io non lo amo più e lo so, lo sento in ogni centimetro della mia pelle. Ma, allora, perché ho questo bisogno di abbracciarlo, di sentire i suoi capelli tra le mie dita?

E' un bene che va al di là dell'amore. E' sapere che è, e sarà per sempre, l'altra metà della mela, quella parte che mi completa. Conosco ogni piccola smorfia, mania, le ossa della clavicola che escono fuori anche adesso che c'è qualche kg in più.
Un bene che va al di là di quello che è successo in quest'anno separati, tanto che vorrei raccontargli di quanto sonno sto perdendo, dell'aria che mi manca.
Non lo faccio perché so che, probabilmente, farebbe male.
Io, davvero, non lo capisco il mio cuore che potrebbe avere l'amore e si accontenta di niente.
"Che bella Firenze, le sere d'estate, le luci del centro, le nostre risate.
Cosa vuoi che ti dica? Ti voglio bene anche se ormai è finita. 
Non sarà certo Mastroianni a cancellare di colpo sei anni e non sarà questa stupida sera a cancellare una vita intera".





Ma stasera ho voglia di brindare a un'altra storia d'amore, per noi che non ci amiamo più.

domenica 28 luglio 2013

Maria

Maria firma su un foglio e ci mette accanto il cognome del marito.
Maria si presenta alla gente con il cognome del marito.
Non è vanità: quel cognome è un cognome normale, come tanti altri. Non dice niente d'importante. Te lo perdi subito e fai fatica a ricordarlo. Ma è di suo marito, quindi è suo.
Lo porta a spasso fiera, lo mostra alla gente come fosse un gioiello prezioso, lo fa splendere al sole come si fa con le lenzuola di lino appena lavate.
Lei, Maria, quel cognome l'aveva tanto voluto e desiderato. L'aveva protetto dalle cattiverie della gente, dal tempo, dalle crisi. 
Quel cognome è il legame che la unisce a lui ancora oggi che lui non c'è più. Perché un giorno di Maggio, quando ancora il sole fa cucù con le nuvole, lui se n'è andato. Sereno, con il sorriso sul volto, e la mano di Maria che stringeva forte la sua.
E' stata la prima volta che l'ho vista piangere. Le scendevano le lacrime e singhiozzava, talmente piccola che ti veniva voglia di abbracciartela forte.
Io, Maria, da bambina la guardavo e pensavo che era bellissima e anche oggi, che ha quasi settant'anni, penso che lo è.
E pensavo che mi piaceva che si sentisse talmente di "qualcuno" da volerne portare il cognome. E pensavo che a me, invece, mi hanno insegnato che io sono mia  e che nessuno sarà mai così importante da meritarsi un pezzo di me.
La generazione di Maria  non ha paura dell'appartenenza, dell'appartenersi. 
La mia scappa dalle relazioni: è precaria nel lavoro, nella vita e nei legami.
Che io, poi, la guardo Maria ed è tutto meno che antica: ha il rossetto sulle labbra e quando esco mi raccomanda di divertirmi, ed è stata madre dolcissima e guerriera allo stesso tempo, ed è stata comprensione e scudo per quell'uomo che tanto amava.
E un po' la invidio quella donna con i capelli chiari e il sorriso grande.
Perché io non so essere di qualcuno, non mi so regalare mai abbastanza e mi terrorizza perdere un pezzo di me. Che io voglio essere "uno" prima di essere la "metà di uno".
Che io sono quella che si butta su un lavoro e magari ci perde il sonno e un paio di pasti, che si scorda di chiamare e anche come si chiama. Che io prima di trovare un altro cognome devo dimostrare di meritarmi il mio.
Ma poi la guardo, Maria con un cognome non suo e la fede ancora al dito, e penso che lei ha capito tutto e io mai niente.
E penso che, forse, prima o poi lo vorrei uno con cui dividere, un po', un pezzo di me.

sabato 20 luglio 2013

Ai tuoi sorrisi


"F, ma questo ha studiato a Yale?"
"Mi sembra di sì. Forse, solo in Erasmus per sei mesi!"
"Ah, però! Secondo te questo mi fidanza?"
"No".

"Ultimamente vivo sempre con questa sensazione del cerchio che si chiude. Solo che non ho ancora capito cosa succede quando si è chiuso del tutto"
"Muori!".

"Pranzi con me?"
"No, vado a casa. E' il mio onomastico. I miei ci tengono!"
"Maa scusaaa, non mi avevi detto che Sant'Alessio era ieri?"
"Si, era ieri. E io non mi chiamo Alessia, infatti!".

Inizio da qui. Dalle cose sceme che ci diciamo, che lo capisci subito quando sono completamente giù/fuori fase e te ne esci con queste battute che sono un mix perfetto e letale di ironia e sarcasmo.
E te lo scrivo qui perché se questo posto esiste, se io scrivo, è (quasi) solo grazie a te che un giorno mi hai detto: "apri un blog e scrivi. Ma scrivi tanto. E scrivimi che mi piace leggerti".
E io oggi ti scrivo.
Oggi che è il giorno dopo dei tuoi 18++.
Lo faccio oggi perché siamo noi così: sempre un po' in ritardo, sempre un passo dopo.
A te che io piangevo e mi tenevi la mano.
A te che interpreti le mie smorfie e poi ne ridi un sacco.
Al tuo modo meraviglioso di entrare nella vita della gente: bussando, piano e chiedendo sempre scusa del disturbo.
Ai tuoi "grazie" perché, ormai, la gratitudine è una roba talmente rara che ti rende ancora più speciale.
Ai tuoi occhi che esprimono un mondo infinito e ogni tanto si bagnano di lacrime.
Alla tua sensibilità.
Alla tua voglia di metterti in gioco.
Ai tuoi mille interessi, i tuoi duemila impegni, alle tue tremila attività che a starti dietro mi gira la testa.
Alla te che voleva chiamare "lui" per dirgli di smetterla di farmi così male.
A te che ti travesti per Carnevale, per Halloween, per le feste e mai nella vita.
A quella foto in cui abbiamo le orecchie da "topo" che mi piace un sacco ma che nessuna delle due ha avuto il coraggio di mettere come foto profilo per non incappare in qualche battuta che non fa ridere.
All'email che ci mandiamo, che ci fanno ridere ma che sono certa non capirebbe nessuno a parte noi.
Alle nottate passate in chat perché nessuna delle due ha sonno e alle nottate passate davanti una birra e un computer a lavorare fianco a fianco.
Alle idee che ti vengono e che coinvolgono tutti.
Alla tua risata contagiosa.
Alla tua voglia di vita.
All'amore che metti nelle cose che fai.
Al meglio che sei riuscita a prendere in me, in quest'anno fatto insieme.

Ai tuoi meravigliosi 18++, perché sono certa che l'importante è non sentirli.
Le cose belle arriveranno, ne sono certa. Te le meriti tutte.
Sei portatrice sana di allegria e se il mondo non gira nel verso giusto per te, non capisco per chi dovrebbe farlo.
Ti voglio bene. Con il cuore.

martedì 16 luglio 2013

Vivi


Ho delle foto da togliere dalle pareti ma non ce la faccio. Sono lì  e mi guardano tutti i giorni, quando mi sveglio e quando mi addormento. Sono lì e non dovrebbero più esserci.
Ho dei pensieri per la testa: quelli che non lasciano spazio ai punti. Sono delle virgole continue e difficili da spiegare alla gente perché si annoierebbe, perché le mie fragilità sono mie mica loro.
Ho dei libri da leggere, me ne regalano molti e non sanno quanto bene (mi) fanno.
Ho delle storie da ascoltare, da raccontare, di cui innamorarmi, per cui emozionarmi. Come l'anziano signore che ieri mi raccontava della sua vita, del carro tirato a mano quand'era in Toscana, della bellezza di Lucca, dell'efficienza di Modena, dei nipotini a Roma.
Ho il cinismo insito in me, come una malattia che scava e scava e poi fa i buchi nello stomaco. Un cinismo che è una difesa, che rende forti ma debolissimi allo stesso tempo. Che ti svuota l'anima e neanche te ne accorgi.
Ho dei sogni che sono degli incubi e la mattina mi sveglio con l'ansia di qualcosa che non è mai successo e mai succederà. Sento la sua mancanza ma la rispedisco indietro come un boomerang perché non voglio più averti tra le mie cose e nelle mie giornate.
Ho delle domande da fare a cui nessuno da' le risposte.
Ho degli scatoloni da preparare:  vita da prendere e chiudere con del nastro adesivo.
Ho una nipote che dice: "che sseei bbella".
Ho delle amiche che danno la colpa alla luna calante quando le cose mi vanno di merda.
Ho una nausea continua, anche in questo momento.
Ho molta voglia di scrivere ultimamente.

Io non lo so che cos'è quest'irrequietezza che mi porta a vedere il nero nelle cose e poi il rosa e poi il nero e poi il rosa.

E' come essere due persone in una: la prima vorrebbe abbracciare il mondo, la seconda lo vorrebbe sfanculare tutto per intero.
Mi sento incompleta e non sono sicura che partire mi completerà davvero.
Ma intanto, come fai a saperlo se non lo fai?
Io me lo chiedo spesso: come si fa a restare vivi?
Non vivi con il cuore che batte.. quello, su per giù, so come funziona.
Vivi con una testa pensante. Vivi senza farsi trascinare dai brutti pensieri. Vivi.
Come?