domenica 7 febbraio 2016

Arrivederci

A un certo punto ho iniziato sui fogli di carta. A un certo punto le bozze hanno superato di gran lunga i post pubblicati.
A un certo punto, questo spazio non era più mio ma del mio dolore. Di lacrime e non più di gioie. 
Era il posto che condividevo con persone a cui ho dato tutto, il meglio e il peggio di me, e da cui a mia volta ho preso tutto. Persone che hanno scelto di uscire dalla mia vita e che, giustamente, hanno pensato di farlo nel modo più deciso. Sbattendo forte la porta, lasciando macerie e ammaccature.
Questo posto mi ricordava tutti i miei fallimenti e le mie paure più grandi. 

In fondo, da settembre 2012 a oggi questo luogo di parole ha affrontato: due lutti, diversi ma pesanti e dolorosi ognuno a modo suo. Delle gioie, poche. Milioni di dubbi, di se, di ma, di passi avanti e poi rincorse all’indietro. Affanni. Qualche risata. Un po’ di inizi e un po’ di fini. 
Ha raccolto la nostra storia non storia, quella che esiste anche oggi e che solo oggi mi rende una persona serena. 

E a questo luogo voglio persino bene, allo stesso modo in cui si vuole bene alle proprie ferite, ai lividi sul corpo che ti ricordano le cadute.
Però, poi, a un certo punto, si deve pure decidere di andare avanti. 
Non sono una di quelle che taglia i capelli quando ha voglia di cambiare quindi questa decisione mi è costata fatica e rimuginazioni. 
E ho rimandato. Non saprei dire per quanti mesi. 
Però, quello che va fatto va fatto e a un certo punto diventa un bisogno fisiologico. 

Chiudo il blog. Questo qui, per lo meno.
In teoria, ne ho un altro pronto dove ho portato qualche pezzo di questo giusto perché alle radici credo molto. 
Emigro su wordpress. 
Non so ancora quando tornerò a scrivere, se mai riuscirò a farlo davvero.
Non so neanche se ci “rivedremo” nell’altro posto. 
Nel dubbio, vi ringrazio tutti perché mi avete fatto sorridere e riflettere, perché siete stati lettori attenti e perché in questo posto per niente pubblicizzato c’è sempre stata un sacco di gente. 

Grazie e arrivederci.

lunedì 19 ottobre 2015

Non riesco a scrivere rischio

Dovevo scrivere "rischio" e un paio di volte, senza rendermene conto, ho scritto  "riesco". 
Quando mi sono accorta dell'errore, quando mi sono accorta di pensare "rischio" e di scrivere, automaticamente, "riesco" era praticamente già troppo tardi. 
E mi hanno fatto notare che sarà perché, davvero, io non riesco a rischiare. 

E lì per lì ho riso ma ho come l'impressione che non si stessero sbagliando. 

mercoledì 7 ottobre 2015

Elenco delle mancanze

Mi manca la libertà delle parole. 
Quella libertà di poter dire quello che si vuole, quando si vuole.
Mi manca il sarcasmo, il politicamente scorretto.
Mi mancano i ricordi che qualcuno ti ha regalato e poi si è ripreso con forza come se fossero solo suoi.
Mi manca dargli un bacio per strada, senza pensare a chi ci sta guardando.
Mi mancano le serate da passare seduta per terra, con una Peroni da 66, e qualcuno che parla di cinema.
Mi mancano le passeggiate fino a Piazza Istria, a schiacciare le foglie gialle.
Mi manca la dolcezza di una mano che ti accarezza il collo che non è fuoco e passione, è proprio la tenerezza di sentire che non sei sola. 
Mi mancano le email lunghe.
Mi manca la speranza del tutto andrà bene.
Mi manca scrivere su questo blog senza l'angoscia e il peso dell'ennesimo post che parla di perdite e dolore. 
Mi manca la fiducia.
Mi manca l'odore del cocco.
Mi manca la gelateria a Via Emilia a Reggio Emilia. 
Mi manca la danza. 
Mi manca leggere un bel libro che fa piangere.
Mi manca la piazza con i leoni perché ho una foto e ogni tanto la riguardo e penso che è bella. 
Mi manca tornare a casa un po' ubriachi, finire sul letto a fare l'amore, svegliarsi tardi il giorno dopo.
Mi manca la spensieratezza di qualche anno fa.
Mi manca farmi tante foto come facevo prima quando nessuno (nemmeno io) avrebbe mai pensato di tirare in ballo la vanità o l'egocentrismo estremo. 
E mi mancano le foto soprattutto perché tra qualche anno vorrò ricordarmi com'ero, cosa facevo, con chi stavo e non avrò più memoria e neanche le foto mi verrano in soccorso. 
Mi manca la passione che mettevo in tutto quello che facevo.
Mi mancano le persone che sanno ancora scrivere "mi manchi" e non quel generico e poco specifico "manchi". 
Mi manca la gente che non si lascia trascinare dal vento come le bandierine.
Mi mancano così tante cose che poi anche un aereo diventa la cosa più vicina a un'idea di felicità. 

sabato 1 agosto 2015

Ci sono giorni in cui penso che non è vero, che tutto questo dolore non l'abbiamo mai provato, che tu sei ancora con noi.
Invece, l'altro giorno, mentre mi accompagnavano a casa ed era notte profonda, ho realizzato che non ci sei più.
Come quando pensi a qualcosa e d'un tratto, nel momento più inaspettato, scopri la verità. 
Una verità che ti lacera dentro, qualcosa di così doloroso che vorresti strapparti la testa dal collo.
Ed è strano perché tutti i pianti, le veglie funebri, il tuo corpo senza vita non mi erano bastati.
Ho nutrito il sospetto che prima o poi ti avrei rivisto rientrare in casa con i jeans troppo bassi e una maglia colorata.
Ho nutrito la speranza che ci avresti detto che siamo delle "zanne", dopo l'ennesima uscita. 
Ho immaginato che saresti stato felice di vederci così tutti insieme, a mangiare una pizza e a ridere delle cose incredibili che solo nella nostra famiglia possono accadere. 
Eri troppo giovane per morire. Dovevi ancora vedermi laureare, finalmente come volevi tu a Roma. Dovevi esserci il primo giorno di lavoro di tua figlia. Dovevi usare gli occhiali da sole  nuovi quando eri a mare, comprare l'anguria per tutti, giocare per terra con le costruzioni dei tuoi nipoti. 
Dovevi ancora vedere tanti film, mangiare tutte quelle pietanze che cucinano le tue sorelle, arrabbiarti con noi perché non studiamo abbastanza, commuoverti perché, sì, siamo tutti un po' cretini ma ci vogliamo troppo bene.
Quelli che credono nella vita dopo la morte, io, li ammiro molto.
A me, invece, io, ho la sensazione che dopo la morte ci sia solo la morte e più ci penso e meno riesco a convincermi che, prima o poi, avrò reazioni più serene nei confronti di chi lascia questa terra.
Adesso che non ci sei più mi sembra di aver perso un po' di punti cardine.
Non so più quanto è alta la gente, che prima si divideva tra quella alta quanto te e quella più bassa di te - più alta di te, mai, era impossibile.
Adesso mi sento un po' persa, pietrificata dalla paura che una malattia qualsiasi se ne porti via un altro. 
E forse è che quando se ne va un pilastro è poi troppo difficile tenere tutto in equilibrio.
 

lunedì 4 maggio 2015

Ci pensi mai a nostro figlio?


Ci pensi mai a nostro figlio?
No, non fare quella faccia. Non sono impazzita, non del tutto. 
Ci pensi mai?
Alla faccia che avrebbe, alle sue mani, alla bocca, al colore dei capelli. 

Io lo immagino maschio e con il tuo naso. Però con il mio broncio. 
Se viene arrabbiato come me poi ci parli tu, poi ti direi tuo figlio ha fatto questo, tuo figlio ha fatto quello, e solo perché saprei che è troppo uguale a me.
Non voglio avere figli, non adesso, non tra un anno ma neanche fra cinque. Sono brava con i bambini degli altri, soprattutto con le femmine, ma non so se sarò mai pronta alle rinunce, all'abnegazione per un esserino minuscolo che ti crede infallibile.
Eppure quando la mattina mi sveglio e tu sei lì, accanto, che ancora dormi, penso sempre a nostro figlio.
A dove crescerà, ad esempio. 
Perché Roma proprio mai che potrei morire d'ansia nei suoi primi 13 anni di vita.
E io, invece, m'immagino con l'Inglesina al parco a prendere il sole e poi in una strada di campagna a insegnargli ad andare in bici.
Chissà quanti libri gli leggerei la sera e quante canzoni canticchierei per farlo addormentare. 
Vorrei che fosse ironico come te e risoluto ma anche un pizzico creativo ed emotivo. 
Vorrei, soprattutto, avere il coraggio di accompagnarlo sempre nel suo percorso senza forzarlo mai, senza imporgli mai i miei punti di vista, senza tracciargli una strada.
Ecco, quello che vorrei davvero per nostro figlio è la libertà. 
La libertà di essere sempre chi vuole, di essere felice, di poter provare tutte le emozioni che sente senza vergognarsi mai. 
La libertà di poter vivere un amore sbagliato, come il nostro, e di non avere tutti i dubbi che abbiamo noi, di non doverlo nascondere mai.
In fondo, che senso ha guardarti dormire, non chiudere occhio neanche per mezz'ora, guardare il sole spuntare, accompagnarti al treno e vederti partire?
Che senso ha continuare pur sapendo che, il nostro, è un rapporto a tempo.
Lo senti il ticchettio dell'orologio? 
Il brutto di leggere molto, scrivere ancora di più, guardare tanti film è che finisci per sceneggiare anche la tua vita.
Ho già scritto la scena in cui, un giorno, vieni da me e mi dici che ti sposi o che fai un figlio o che parti per qualche paese lontano di cui non ricorderei mai il nome per intero. Tipo il Turkmenistan, che ho dovuto googlare per essere certa della sua esistenza e che, comunque, non saprei collocare sul mappamondo. 
Magari tu in Turkmenistan e io di nuovo in Sicilia così un figlio non lo facciamo di sicuro e tu puoi tornare a respirare.
Eppure sarebbe bello con il tuo naso e i tuoi capelli e, forse, anche le tue spalle. Eppure mi pare un peccato sprecare tutto questo amore, gli abbracci, i baci, le carezze, le risate, gli attacchi di panico, i pianti, i messaggi, le spunte blu di whatsapp, l'abbonamento premium a spotify, la pasta al pesto di pistacchio, il mio spazzolino nel tuo bagno, il Syrah, le serie tv in inglese, i film lasciati a metà. 
Vorrei andare a Dublino quest'estate, tu a Berlino.
Magari ci incontriamo a metà strada ma, nel frattempo, dimmi: ci pensi mai a nostro figlio? 


martedì 28 aprile 2015

Mentre tu sei vivo

A un certo punto il telefono ha vibrato e io l'ho fissato per un paio di minuti, perché ho un esame tra poco, perché non so un cazzo, perché non ho tempo di parlare a telefono.
Poi, invece, ho risposto.
Dall'altra parte una voce diversa, affannata, che dice le cose tutte insieme senza respirare.
Ma di cosa stai parlando, dico io, ma io non ne sapevo niente.
Sei vivo, dicono. 
E lo dicono come fosse la più grossa grazia del cielo, come se dovessi ringraziare qualche dio per questo.
A me invece viene solo da piangere.
Mi metto per terra e mi manca l'aria.
Penso a quanto costerebbe un volo se andassi adesso a Fiumicino.
Penso a quanti giorni potrei impiegare per fare 1000 km a piedi.
Che in fondo, consumerei molte suole di scarpe se sapessi che serve a qualcosa.
Potrei anche imparare a nuotare che chissà quante volte ci hai provato ad insegnarcelo e ci tenevi sotto la pancia mentre facevamo il morto, che si chiamava ancora fare il morto e non come ora che ai bambini si dice "fare la stellina", così non s'impressionano.
Ci tenevi da sotto la pancia e poi, a un certo punto, toglievi la mano e noi dovevamo imparare a fidarci di noi e non più di te. Dovevamo respirare e galleggiare. La cosa più facile del mondo.
Non sto respirando da qualche minuto, mi devo ricordare di farlo ogni tanto perché mi accorgo di essere in apnea. 
Eppure sei vivo e anche io sono viva ma non siamo vivi uguali.
E odio questa casa così distante e mi detesto perché non riesco a parlare con nessuno di te, del casino che ho in testa.
Chissà quando è successo che mi hanno convinto del fatto che raccontarsi è una debolezza e che, soprattutto, mostrarsi fragili è solo una vanità inutile.
Quando le ragazze tornano a casa, mi trovano con gli occhi rossi, la faccia sbattuta e io continuo a dire che va tutto bene, ho solo sonno da recuperare.
Va tutto bene. Respiro. E anche tu respiri.
Poi, m'immagino un giorno che entri in casa e dici "a sgrinfia unni è" e io magari rido o magari ti dico che ci stai facendo piangere tutti da mesi e ti faccio promettere che non lo farai mai più. Che il tuo corpo non ti sarà mai più nemico.
Promettimelo e io imparo a nuotare, davvero.

domenica 5 aprile 2015

Di questi cazzo di anni zero

Cerco di convincermi che le distanze sono una cosa bellissima. 
E lo sono, di sicuro, ma vaffanculo. Mi manchi che mi mancano praticamente tutti i pavimenti. Chissà se sono solo un bisogno fisiologico gli abbracci. 
E sarei sempre sugli eurostar e sulle frecce rosse a sfogliare riviste, per venirti incontro. Stammi a duecentotrentasei chilometri di distanza e corrimi addosso. A tre ore di macchina o trenta euro di treno.
Adesso se fossimo in un telefilm ti dicevo che ti amavo. Così, coniugando anche male i verbi. E noi siamo meglio di un telefilm, e infatti non ci diciamo niente. Poi in qualche altro modo tecnologico ci abbracciamo appoggiando la fronte sullo schermo del computer. 

Vasco Brondi
Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero.