martedì 26 novembre 2013

25 Novembre 2013, il giorno dopo.


Le maglie rosse, le sciarpe rosse, le guance rosse ma per il vento freddo che mi ha quasi congelato le mani.
Una piazza completamente illuminata di rosso, con tutti questi fili che la attraversavano e si intrecciavano, uno sopra all'altro, passando per ogni angolo.
"Stop violence against women" dice una scritta bella in evidenza sul palazzone del governo.
Una signora dai capelli neri sta parlando al microfono e ci sono molte donne che annuiscono. "Già a scuola ci insegnano che si chiama ministro non ministra, che si dice avvocato non avvocata".
Le teste davanti a me fanno su e giù con la testa.
Io ci penso e dico che, insomma, a me se fossi "ministro" non me ne fregherebbe granché di essere chiamata "ministra". Poi questa cosa del mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini l'aveva già detta una scrittrice che leggevo a 14 anni.
Il libro era dorato, il nome della scrittrice a stampatello maiuscolo in rosso: ORIANA FALLACI. Più o meno così. Sotto c'era scritto: LETTERE A UN BAMBINO MAI NATO.
Con lo stesso colore e lo stesso font.
In questo libro, che è stato scritto quasi trent'anni fa, questa scrittrice dice al bambino che porta in grembo, che essere femmine è difficile perché non è un mondo fatto per noi.
Ci usano per lavare le mutande dei soldati, ci usano per cucinare, ci usano per scopare ma poi se restiamo incinte ci lasciano da sole. In questo libro, lei dice: se resti incinta ti lasciano tutti da sola se non hai un marito o non sei già sposata. Ecco, non ricordo se lo dice esplicitamente ma sono sicura che il senso era quello.
Che senso ha nascere donne in un mondo in cui anche dio è un uomo con la barba?
Poi, però, sempre la stessa scrittrice e nello stesso libro, cambia opinione: voglio che tu sia femmina perché essere femmine è il regalo più grande di tutti. E anche se tu fossi un uomo voglio che insegni agli altri che le donne vanno rispettate, che non fu Eva a fare peccare Adamo, che dio probabilmente è una vecchia con i capelli bianchi.
Non lo sto rileggendo, vado a memoria, ma sono quasi certa di essere abbastanza vicina al testo.
Molte volte mi sono interrogata sullo stesso argomento. Molte volte ho pianto di fronte l'ennesima donna ammazzata per mano del marito, del compagno, dell'ex fidanzato.
Però, non ditemi femminicidio. Non me lo dite.
Chiamiamolo per quello che è: omicidio.
E no, non è neanche un omicidio "passionale". E' omicidio e basta.
Passionale è un'altra cosa. Passionale è un bacio, è un gemito, è qualcuno che si aggrappa ai tuoi fianchi mentre state facendo l'amore. Passionale è un ballo attaccati, è cucinare e smezzare le pietanze.
Io pensavo, mentre quella con i capelli neri parlava della "ministra" e del "dobbiamo essere uguali" che, io, uguale ad un uomo non sarò mai.
Non lo sarò nella mentalità, non lo sarò nel cuore, non lo sarò nella forza.
Io non voglio essere come un uomo anche se ormai ci obbligano a essere come loro.
Io voglio essere una donna e voglio gridarlo forte che non me ne faccio niente di queste pari opportunità se poi esistono le giornate rosa, le giornate contro il femminicidio, le quote rosa.
Non me ne faccio niente se mi fate firmare un foglio di licenziamento prima ancora di assumermi, non me ne faccio niente se per parlare con un uomo ed essere presa sul serio devo fare la stronza e usare le parolacce.
Io voglio essere donna e voglio che un giorno, se mai avrò una figlia, possa esserlo anche lei.
Voglio dire a mia nipote che non c'è niente di male a voler studiare, fare carriera ma allo stesso tempo volere una famiglia e dei figli.
Voglio piangere davanti i film romantici e voglio ancora sognare davanti Tiffany con una brioche in mano e voglio che questo non sia inteso come segno di debolezza.
La nostra non è debolezza, è diversità e la diversità, in una società normale, non dovrebbe essere demonizzata.
Io voglio essere diversa che pari agli uomini ci faccio stare altri uomini.
Io voglio che mi apri la portiera, che mi compri il gelato, che pensi che è bello avere una donna al tuo fianco da poter proteggere.
Già vedo alcune di voi storcere il naso. Anni e anni di lotte buttate nel cesso da una che scrive su un blog che vuole essere diversa.
Ma è la verità: io non voglio essere pari. Io voglio rispetto.
Io non voglio che serva una piazza colorata di rosso per ricordarci che un essere vivente, sia donna che uomo, non si uccide mai.
Partiamo da noi, dai nostri figli. Partiamo insegnando loro che sì, siamo meravigliosamente e irrimediabilmente diversi. Diciamo loro che non c'è niente di passionale nel possedere un'altra persona: provate a recidere un fiore e tenetelo stretto in un pugno. Non è amore.
Iniziamo dalle piazze magari, che male non fa, ma poi ricordiamoci di dirlo ai nostri figli, i nostri alunni, i nipotini.
Cerchiamo di essere l'esempio. Per noi e per loro.

venerdì 22 novembre 2013

Ti volevo dire


Anche se un po' mi manchi, anche se io ci vedevo del buono in questa cosa, anche se tu mi sapevi di buono: di cornetto alla crema con lo zucchero a velo, di pomeriggi sdraiati su un prato, di librerie piene di pagine ingiallite, di sogni e di orizzonti.
Tu eri il buono di questa cosa. Ti ho idealizzato? Può darsi.
Mi sai ancora di buono. Anche quando mi viene da crollare, da franare come la terra quando piove tanto. Ecco anche in quei momenti penso che sai di buono come l'acqua fresca dopo tanto sole o come la pioggia dopo la siccità estiva.
Io, probabilmente, con te ho sbagliato tutto e ti ho fatto vedere il peggio. Io, probabilmente, non so di buono come te perché ogni tanto tremo come la mia terra, ogni tanto mi lascio andare alle scosse, ogni tanto anzi spessissimo sono preda delle mie insicurezze.
Però, forse, ne sto uscendo.

mercoledì 20 novembre 2013

D.


Attraverso la strada e non guardo mai nè a destra nè a sinistra. Non che non me l'abbiamo insegnato, anzi. 
La mano destra è quella con cui scrivi, a destra c'è la porta e anche il muro con appese le lettere dell'alfabeto, A come Ape, B come Birillo, C come Cane. A sinistra c'è la finestra e fuori dalla finestra c'è la strada e su quella strada, sempre a sinistra, c'è il papà di Paolo che di mestiere fa quello che aggiusta le macchine.
Comunque, io la strada, quando attraverso, non la guardo mai, anche se le maestre mi hanno insegnato e ancora mi ricordo. 
Quindi, finisce sempre che qualcuno mi tiri per il braccio.
Mi trattengono mentre loro controllano che si possa attraversare, poi dicono che sì, ok, si può. 
Tipo, l'altra sera è stata la mia coinquilina. Un po' prima era stato qualcun altro.
Ed è una cosa che in fondo, ma non l'ammetterò mai, mi piace. 
Mi piace pensare che, nonostante tutto, ci sia qualcuno che si preoccupi non di me ma per me.
Io penso che sia un gesto d'affetto puro. Incontaminato.
Perché le persone così mi danno lo spazio di essere fragile, di piangere un po', di essere distratta dalle luci, di pensare un po' meno.
Ultimamente cammino per strada e penso sempre che mi manca qualcuno che mi ripeta che sono brava.
Sono in equilibrio su questo filo e basta un niente perché io cada e mi faccia male. Mi guardo intorno e non c'è nessuno, eppure penso che basterebbe che ci fosse qualcuno a destra o a sinistra (che so riconoscere) a dire: "brava, continua! Un passo alla volta. Brava. Stai facendo bene, non ti fermare".
Mi sento come quelle ballerine da carillion che la gente carica, carica, carica e poi fa girare con  una musica insopportabile in sottofondo.
Con quel sorriso irritante sul volto.
Che vuol dire? Non lo so.
Non so un sacco di cose. A lezione ho scoperto che è un bene.
Mi faccio molte domande ultimamente e, di solito, le faccio a me stessa.
Mi hanno detto che restare è difficile tanto quanto andarsene. Stronzate.
Restare è comodo, è facile, è un modo per tenere a bada i sensi di colpa e accarezzare l'abitudine.
Andarsene è doloroso, straziante, liberatorio, bellissimo. In ordine, così come li ho scritti.
Lasciare a metà qualcosa non so com'è, non ne sono capace con i libri, con i film, con le serie tv, figuriamoci con le persone. Non so come facciate voi a sopportare questi rapporti intermittenti che si accendono e si spengono come le luci di Natale, che hanno già montato alla Coin vicino casa mia.
Ci sono, non ci sono, ci sono, non ci sono, ora sì, ora no, ora ti amo, ora forse non lo so.
Voi persone così siete assurde, egoiste, insopportabili.
E probabilmente, voi persone così, non capirete mai la dolcezza di qualcuno che si ferma per strada per controllare che non passino macchine o, che ne so, qualcuno che ha il doppio dei tuoi anni e potrebbe essere tuo padre, ma ti manda un sms al giorno per sapere come stai, se hai mangiato, se stai studiando.
Non capireste mai il bisogno di camminare su un filo lungo e in bilico solo per sentirsi dire brava, perché per voi sarebbe un modo per piangersi addosso e invece è solo bisogno di certezze e di presenza.
Ho molti dubbi in questo periodo, talmente tanti che ne dimentico un paio al giorno.
So quante kcal ha un Crispy Mcbacon, so che la mattina a lezione arrivo tardi anche se mi sveglio prestissimo, so che questa è la vita che voglio e so che sono felice di aver rischiato.
So che mia cugina mi ha comprato un rossetto fucsia perché secondo lei mi starebbe bene e io quando me l'ha detto mi sono sentita una bambina a cui regalano la prima trousse.
Ho dei dubbi sul PD, sul Papa, su Barbara D'Urso che con la faccia contrita intervista minorenni , sui miei punti neri, sulla gente che si sposa perché andarsene e lasciare tutto sarebbe troppo complicato, sul blu e il nero accoppiati insieme, su quelli che dicono che ti amano e poi la sera scopano un'altra, su quelli che dicevano "ti adoro" e poi ti trattano di merda.
Mi faccio molte domande, mi rispondo sorridendo, non mi piango addosso. Non piango proprio perché non mi ricordo più come si fa. C'è un bottone da qualche parte per attivare la lacrimazione?
Non dormo più.
Desidero qualcuno che rinunci al giubbotto per darlo a me perché ho freddo, che guardi le macchine che passano prima di farmi attraversare, che mi stringa forte tutte le notti che qui ci sono i tuoni che fanno tremare le finestre e io ho paura.
Desidero qualcuno che sappia esserci e che risponda alle mie domande.
Desidero che è un'altra bella parola che inizia per D.
Dubbi.
Desidero.
Dormo (speriamo).

(Sono quasi le 3. Il post non lo rileggo. Probabilmente non ha neanche senso.
Scusatemi.)

giovedì 7 novembre 2013

Stacce


C'è un campo piccolo. 
Davanti al campo ci sono delle panchine.
E io sulle panchine, davanti il campo piccolo, mi siedo spesso nel pomeriggio e guardo le foglie per terra che stranamente sono di un rosso e di un giallo intenso. Schiaccio le foglie, leggo e un po' mi guardo intorno.
Le foglie fanno un rumore che è simile a un cracker che si rompe. Sono friabili. Fri abili. In ordine penso a Banderas che impasta i cracker (s'impastano, no?), alla terra friabile, al fango. E' che ho i pensieri pindarici. 
Dentro al campo si tirano la palla, ma proprio addosso, e s'insultano e ridono. "Regazzini", dicono qua. Regazzini con le Jordan ai piedi e con i pantaloncini corti.
Penso che a 883 km da qui, i "regazzini" li chiamano "carusi" e che alcuni di loro io li conosco e me lo ricordo quando stavano dentro un campo, con le Jordan e i pantaloncini corti.
E mi ricordo anche che uno di loro non lo vedo da anni e non perché non avrei voluto. E' solo che non si può. 
E mi ricordo che, sempre lui, mi diceva ché te li allisci a fare i capelli? Lo sai che riccia sei più tu? Almeno, si capisce subito come sei. E come sono? "Selvaggia". 
E mi ritrovo a schiacciare foglie che fanno crick e a sorridere di quei ragazzini che ne hanno messo uno all'angolo e gridano: "stacce".
"Stacce", è una parola che mi piace un sacco.
E se avessi avuto una macchina fotografica, non per forza ultra tecnologica, una qualsiasi, e avessi saputo fare delle foto più o meno decenti, magari li facevo vedere anche a voi i "regazzini" con le Jordan e le maglie a maniche corte a Novembre.
E voi, non potevate sentire che dicevano "stacce" ma quello ve l'avrei raccontato io.

lunedì 4 novembre 2013

E non so più come si fa a trovarlo


L'altro giorno ho ritrovato Winnie Pooh, quello da collezione con il cappello e la sciarpa al collo, che io me la ricordo ancora la scena: c'erano le luci di Natale a illuminare una via del Corso bagnata, io ti guardavo e dicevo che lo volevo, mi serviva, praticamente l'hanno fatto per me. Tu ridevi.
Hai diciotto anni, dicevi. Non puoi volere ancora Winnie Pooh.
E invece sì e quindi, alla fine, finisti per comprarlo insieme al peluche di Lilly & il Vagabondo.
E bagnarci insieme sotto la pioggia di una Roma eterna e immensa. Io con il giubbotto nuovo e inzuppato e tu con il tuo Belstaff che restava asciutto e non si capiva perché.
In quei giorni, ti ho chiesto per la prima volta di andare a vivere lì.
"Ma c'è il traffico e la vita è cara" mi hai risposto.
Ho alzato le spalle e ti ho risposto che avevi ragione tu. Come sempre.
Poi, c'è stata Milano. Ti ho trascinato per Brera perché è l'unica parte della città che mi piace e ti ho portato a vedere Hayez e Caravaggio. Tu che avresti preferito confonderti tra le divise arancioni e invece dovevi accontentare me che, in quel periodo, di arancione non volevo vedere nulla.
E Milano piaceva a te. A me faceva venire l'angoscia perché mi sentivo sempre troppo piccola, troppo lenta, troppo estranea.
"Milano è efficiente", dicevi.
Milano mi fa schifo, ti rispondevo.
E quella settimana di convivenza da sperimentare. La mattina mi lasciavi sola a dormire, mi baciavi la fronte e poi andavi via. Io bevevo il cappuccino schiumato, con poco caffè che a me il caffè neanche piace e poi mi mettevo a studiare. Tu arrivavi all'una e ti mettevi ai fornelli. Cucinavi tu perché io sono incapace e a te piace mangiare bene mica le schifezze che mangio io.
Girare in mutande per casa, finire a fare l'amore sul divano, sul letto, sul tavolo, per terra.
Questa è la vita che voglio per sempre. Per sempre.
Un Natale, l'ultimo, mi hai detto "ti porto a Parigi". Parigi non mi piace, voglio andare a Londra.
Londra che ha di romantico? Niente.
Che abbiamo di romantico noi? Niente.
E sarà finita lì la favola e il perché io ancora non l'ho capito.
Le cose iniziano e finiscono, ce ne dobbiamo fare una ragione. Però, il mondo non si è fermato quando noi abbiamo finito di guardarci innamorati come in quella foto dove io ho le codine e tu mi versi la Coca Cola in un bicchiere o in quell'altra che è ancora in camera mia, che io guardo la fotocamera e tu guardi me.
Qualcuno doveva accorgersene e dircelo che non ci amavamo più.
Invece, abbiamo continuato e continuato e logorato tutto. Ci siamo messi d'impegno a distruggerci a vicenda.
Tanto che la mia pelle non riconosceva più le tue mani e pensavo "ma tu che vuoi? Ma tu, in fondo, chi sei?". E poi, piangevo dei miei stessi pensieri che erano ingiusti e cattivi che tu volevi darmi il mondo e a me non bastava più nemmeno quello.
E adesso di cosa ho bisogno? 
Adesso che con me stessa riesco anche a parlarci bene, a farci lunghe conversazioni. Adesso chi voglio? 
Qualcosa come tornare a girare nuda per casa, qualcuno che torna e mi prende un po' in giro, poi mi morde i fianchi che anche se sto dimagrendo sono sempre lì, un po' più pronunciati. 
Qualcuno che mi tenga la mano mentre dormo.
Qualcuno mentre dormo. 
E' più di un anno che ti ho lasciato e mi sono detta che non avevo più bisogno di nessuno. Falso, lo sapevo.
Mi sono raccontata la storia della donna che si basta da sola. Falso anche questo.
E' vero non credo al per sempre, non credo alle cose che durano nel tempo.
Credo negli abbracci che ti lasciano i segni nel corpo, credo nei piccoli gesti di ogni giorno come un ti penso, un mi manchi, un vieni qui che ne ho bisogno. 
Credo nelle notti passate con qualcuno che ti stringe da dietro come se tu fossi una cosa importante.
Credo in qualcuno che non è per sempre ma è per ora.
E non so più come si fa a trovarlo. 

domenica 3 novembre 2013

Wor(l)ds #5


Le premesse non le faccio nemmeno più.
I lettori attenti avranno capito che sta diventando una rubrica fissa e che la amo molto.
Questa settimana c'è anche un po' di me (purtroppo poco davvero). 
E se vi sbrigate, entro domani, potete partecipare anche voi al wor(l)ds #6
900 caratteri, spazi inclusi, e la vostra creatività.
Se avete un po' di tempo, ecco anche il pidieffe di wor(l)ds #5 da leggere. E' davvero bello. 

E poi, come di consueto, ecco il mio.


Si alzò tardi e nella penombra della stanza cominciò a stiracchiarsi. 
Poggiò i piedi per terra e un brivido di freddo le percorse tutto il corpo, per fermarsi alla base della schiena. 
Le foto appese ai muri della stanza la osservavano, anche quella nella cornice bianca, a destra del letto. Ogni mattina si svegliava e le guardava tutte con riconoscenza. C’erano il suo passato e il suo presente in quei volti sorridenti. Tutto ciò che l’aveva portata a essere quello che era oggi.
Su un post-it rosa, attaccato alla porta, c’era un buongiorno scritto in bella grafia. “Tesoro, ti ho già preparato il caffè. Ci vediamo per pranzo e non vedo l’ora.
p.s. eri così bella mentre dormivi che non ho voluto svegliarti”.
Baciò quel pezzo di carta, sbadigliò rilassata e andò per accendere il fornello in cui era poggiata la caffettiera già pronta.
Guardò fuori dalla finestra e pensò che era felice.