sabato 22 febbraio 2014

Nausea

Quando da piccola pensavo di avere troppe cose dentro, allora, mi mettevo con la testa dentro un cesso e vomitavo. 
Era l'unico modo per fare uscire tutto: le gioie, la rabbia, le delusioni, l'amore. 
Ho sempre pensato che era il troppo amore, a cui non volevo piegarmi, che non volevo dentro. 
Alzavo la tavoletta e giù a vomitare.

Quando da piccola vomitavo, poi piangevo. 
Era tutto così strano, così liberatorio, così una merda che ancora adesso mi sembra di sentirla addosso. 
C'erano periodi che contavo le calorie prima di mangiare, che bevevo un solo bicchiere d'acqua, che masticavo una gomma per tutto il giorno e più lo facevo e più mi disgustavo. 
Ci sono stati giorni in cui ho mangiato tutto quello che avevo a tiro, senza sentirne il sapore, senza capire se fosse dolce o salato, masticando velocemente come se io quel cibo più che gustarlo lo volessi annientare. Poi, piangevo. Poi, vomitavo il mondo. 
È durata degli anni così. Tra alti e bassi. 

Nel duemilacinque, mi pare, uscivo con quello con gli occhi azzurri. Mi piaceva. Mi piaceva in un modo un po' particolare. Perché alle mie compagne di classe, alle altre della scuola, lui piaceva perché era un "figo". A me piaceva perché ridevamo sempre, perché aveva degli occhi azzurri che dentro ci annegavi, perché mi diceva "sei una nana" e io rispondevo "sei un cretino" e lui mi diceva "e tu sei bellissima". 
Non è mai stato il mio fidanzato. Lo era delle altre ma mai il mio. Io c'ero e restavo li, silenziosa, ad aspettare che capisse che le altre lo vedevano solo bello e io, invece, lo vedevo tutto. 
Ci trovavamo la notte, sempre nei posti più strani. Lui mi baciava, io lo scansavo e alla fine cedevo. 
Tornavo a casa e vomitavo. 
Vomitavo i suoi baci, vomitavo i miei no che diventavano sì, vomitavo l'amore che avrei voluto dare a lui ma che lui non si prendeva. Pensavo che era così che andava l'amore. Penso che sia così che va l'amore.
Sul diario, nella pagina dell'otto febbraio duemilacinque, c'è una frase: quod me nutrit me destruit.
Ci credevo davvero. 
Quell'anno rifiutavo il cibo, i pantaloni taglia 38 mi cadevano, ero gialla e sempre incazzata. 
Ma io quell'otto febbraio me lo ricordo perché è venuta Lei e mi ha detto che il gioco non le piaceva, che se cadevamo, allora sarebbe stato insieme. 
Ci siamo smezzate un quadratino di cioccolato, 125 kcal, un the alla pesca, 62 kcal. 
E ci siamo tenute per mano che nessuno doveva andare in bagno e vomitare odio. 
Lei diceva che quello con gli occhi azzurri era un cretino. Che ne sa quanto sei speciale, che ne sa di quello che si perde. 
Qualcuno a rileggere direbbe che sono disturbi alimentari. Io boh, non ci giurerei.
Mi sono sempre fermata un passo prima, perché avevo una famiglia incazzata quanto me, una madre che controllava quante volte entravo al cesso, un'amica che mi teneva per mano. 
Sono svenuta varie volte e tutte quante mi sono ritrovata per terra con dello zucchero sotto la lingua. 
È tutto a posto, dicevo: ne sto uscendo, adesso rido, adesso mangio, non vomito più, sto ingrassando.
E la gente smetteva di fissarmi. 
Avevano paura delle parole, di dirmi sì sei più grassa, sì sei più magra, sai che stai bene?, secondo me dovresti fare un po' di attività. 
Non mi guardavano, non mi parlavano, non sorridevano ai miei deliri ma neanche s'incazzavano. Era più facile fingere di non vedere piuttosto che guardare bene in faccia la realtà. 
Schivavano le domande, i miei sguardi, i miei dubbi. 
Che sia mai che la bambola pensi che è ingrassata e torna con la faccia dentro al cesso e noi neanche ce ne accorgiamo. 
Invece, avrei voluto risposte, avrei voluto gente che mi trattasse male, che mi dicesse che ero una cretina perché io mi sentivo una stupida.
Dicevo: hei io sono una guerriera, non mi fanno paura le parole, mi fanno paura i sentimenti. 
Per anni è andata così anche quando ho avuto tutto. Cumulavo cibo e rabbia e amore e passioni e sogni da tenere in silenzio e paure. 
Le ho tenute sempre per me e con me. 
Ci sono cose come queste che non si possono e vogliono condividere con nessuno.
E anche adesso tremo un po' al pensiero che le leggerete.

Oggi, ho mangiato cioccolato, mozzarella, nutella, una piadina, cioccolato. 
Senza un ordine, una logica, una voglia.
Riempio un vuoto che un secondo dopo voglio svuotare.
Voglio vomitare come quando avevo 15 anni o 17 e, invece, adesso ne ho 23 e dovrei essere "grande".

Ok, è così che vanno le cose. 
L'amore è per le altre, quelle che non fanno troppe domande.
A me resta il senso di nausea come quando sei con lui che sta dormendo e sai che appena si sveglia, dovete scendere e tornare alla vita reale.
Quella dove tu non esisti.

Quella dove tu non esisti.
Vomito.



giovedì 20 febbraio 2014

Numeri


Dentro al carrello della spesa ci sono solo un po' di pasta, qualche scatola di tonno, dei succhi di frutta di quelli che si danno ai bambini e poco altro.
Lui ha i capelli bianchi e una giacca che lo fa sembrare davvero elegante. Un borsello poggiato sul carrello, un cellulare nelle mani. 
Davanti alle casse, continua a ripetere che non ricorda il numero.
Il numero di cosa?
Non me lo ricordo.
Ma del cellulare o della carta per pagare?
Non lo so. Non me lo ricordo. Non ricordo il numero.
Ma di cosa?
Non lo so.
Vorrei dargli una mano, dirgli si appoggi a me, non si preoccupi. Arriveranno i numeri, non abbia paura, c'è tempo, c'è tempo.
Riguardo il carrello, anche se non si fa perché è un intromissione nella sua vita e già mi sono spinta abbastanza oltre. Mi fisso sui succhi di frutta. Magari sono per i nipotini che lo vanno a trovare. 
Mia nonna li comprava quando eravamo piccoli. Io li compro anche oggi che sono grande e li tengo nello sportello basso, accanto alle crostatine alla nutella, ai plum cake e ai ritter sport in 4 gusti diversi.
Nel frattempo, è arrivato il mio turno alla cassa e lui è ancora dietro che non ricorda. 
Non è vero che c'è tempo, non ne abbiamo mai abbastanza. Il mio è arrivato e dovrò uscire dal supermercato e dovrò correre a prendere l'unico autobus che mi porta a casa oppure dovrò andare a piedi.
E non posso abbracciarlo, chi sono io per farlo?
Potrebbe essere mio nonno, quest'uomo in giacca a quadretti al supermercato e con un po' di pasta e di tonno dentro al carrello, potrebbe essere il padre di qualcuno che in questo momento è troppo impegnato chissà dove, potrebbe essere il marito di una donna che lo sta aspettando a casa per prepararla questa pasta e tonno.

Fuori, il cielo è grigio e su via Tiburtina non c'è nessuno che si ferma. 
Neanche i due ragazzi che si baciano davanti la fermata, neanche la signora con la busta intimissimi. Nessuno sa che dentro il supermercato c'è un uomo, in giacca a quadri, che ha perso dei numeri.

Non si sa che numeri, ma sembra che dovevano essere importanti.

lunedì 17 febbraio 2014

Tu chi sei?


Mi affaccio dalla finestra.
Penso all'anno scorso, all'ansia che avevo addosso mentre guardavo quel panorama che ti toglieva l'aria.
Penso che mi guardavi e mi stringevi un fianco.
Ero troppo impegnata ad avere paura, per accorgermi che poteva anche andare bene così.
Guardo dalla finestra.
Ti sento ridere.
Non la sopporto quella risata.
Guardo dalla finestra, c'era il sole fino a qualche minuto fa e poi sono arrivate le nuvole.
C'è un gabbiano, ci sono i tetti delle case, c'è un terrazzo bellissimo con l'edera.
Ci sono io che mi tocco i capelli mentre entri tu nella stanza.
Saluti frettolosamente, rispondo con un ciao. Fine.

Eppure, quello lì non è quello che ho conosciuto io.
Oppure è la me di ora che non è quella che hai conosciuto tu.
Eppure, mi servirebbe una ragione sola per capire dove ho sbagliato, se ho sbagliato.

Ho bisogno di qualcuno a cui dire che il libro fa schifo, che il film invece mi ha fatto piangere un sacco, che Roma di sera è un sogno.
Ho bisogno di avere la certezza che se non ci sei non è per qualcosa che ho fatto io.
Ho bisogno di sapere che non ho rovinato tutto io, come sempre.

Ogni tanto ti leggo. Prima era sempre, ora ogni tanto così ho meno pensieri.
Hai scritto una frase, ho pensato: parla di "noi". Ha fatto male.

Fingo di non conoscerti abbastanza di fronte la gente, faccio spallucce quando qualcuno mi parla di te. Perché? Non lo so.
Hai la stessa delicatezza quando ti parlano di me oppure fai come fai con tutti e dici "che rompi coglioni questa" come se io non t'avessi chiesto scusa, per favore, ogni volta?
Ho cercato di stare sulle punte tutto il tempo quando entravo nella tua vita, neanche un errore, una sbavatura.
Ancora tengo i pensieri che mi hai regalato gelosamente custoditi da qualche parte nel mio corpo. Anche a scriverli qui, che nessuno li troverebbe mai, mi sembrerebbe di farti un torto.
Mi spieghi perché io ti voglio ancora così bene, di un bene senza senso, e tu non riesci neanche a parlarmi?

Lo sai che mi manca, più di tutto?
Tu che m'abbracci. Come a fine Maggio, quando appena arrivata mi hai abbracciata stretta e mi hai detto che eri felice di vedermi.
Ecco, mi manca lui non tu.
Tu chi sei? Lui dov'è?



 "Qual è il grado di dolore che riesci a sopportare prima di fermare l'esecuzione e chiedere soccorso a me, che non ti do un motivo ancora per restare..
Cerca un modo per difenderti, una ragione per pensare a te.
(Lasciarsi un giorno a Roma - Niccolò Fabi)"